ROMA — È un bivio stretto. Peggio, un autentico dilemma. Giorgia Meloni pesa in queste ore i rischi di sostenere l’opzione Mario Draghi. La possibile frantumazione degli equilibri del centrodestra. L’ostilità di Matteo Salvini. L’ombra che gli imporrebbe una figura come quella dell’ex banchiere. Ma valuta anche un vantaggio, ponderandolo assieme a un dato di realtà. Il vantaggio: stringere un patto con chi guida la Commissione potrebbe blindare il suo esecutivo, assai traballante sui conti. Il dato di realtà: può la premier osteggiare una soluzione che piace non soltanto a Emmanuel Macron, ma anche alla Casa Bianca? Difficile, soprattutto se l’amministrazione americana ha rappresentato la principale sponda per resistere allo scetticismo europeo verso la destra italiana. Per questo, evita di esporsi. Non mette la faccia su una frenata. Fa tacere i suoi. E tiene viva la carta di portare l’ex premier a Bruxelles, anche se preferirebbe semmai lanciarlo alla guida del Consiglio europeo.
Un passo indietro, fino a ieri mattina. Nessuno potrà mai confermare ufficialmente quanto circola a metà giornata nel governo: Meloni, riferiscono fonti di primo livello, avrebbe scambiato alcuni whatsapp con Emmanuel Macron per capire come gestire la notizia su Draghi, pubblicata da Repubblica.Di certo, i contatti coinvolgono anche ministri dei due governi. La presidente del Consiglio ne ricava la sensazione di una imminente precisazione dell’Eliseo, utile a raffreddare il clima. Alla fine, però, nulla che vada oltre un generico “no comment” trapela dalla Presidenza della Repubblica francese. E la premier deve gestire le conseguenze di uno scenario che non può escludere.
Nulla è come sembra, dunque è necessario mettere in fila i fatti e pesare gli indizi. Il primo, fondamentale: il rapporto tra Giorgia Meloni e Mario Draghi resta solido. Non magari costante come durante la transizione, a volte macchiato da screzi, ma comunque saldo. I due si parlano, l’hanno fatto anche di recente. Evitano attacchi personali diretti, anche sui dossier più caldi. La premier ha contestato a volte l’impostazione del Pnrr, senza mai nominare Draghi. L’ex banchiere, anche durante l’ultima apparizione pubblica per la presentazione del libro di Aldo Cazzullo, ha evitato critiche dirette all’attualeesecutivo e anzi, parlando della crisi in Medio Oriente, ha detto: «L’Italia ha acquisito credibilità». Non potrebbe essere altrimenti, perché in questa fase nessuno dei due può fare a meno dell’altro.
Il problema, a dire il vero, è soprattutto di Meloni, come suo è il bivio. Se infatti la premier dovesseaccettare di sostenere — non oggi, ma al momento giusto — la proposta di Macron per portare Draghi alla presidenza della Commissione, entrerebbe in conflitto diretto con il principale alleato, Matteo Salvini. Ieri nessun leghista si è spinto fino a bocciare l’idea, ma il leader del Carroccio è sul piede di guerra ed è pronto a colpire proprio su questo fianco: Draghi verrebbe brandito come emblema del famigerato inciucio che denuncia, simbolo di un’Europa da combattere assieme a Marine Le Pen, addirittura espressione dell’odiato Macron. Anticamera di una emarginazione che potrebbe avere pesanti ripercussioni anche a Roma, sugli equilibri di governo.
È pur vero che Salvini ha sostenuto il governo Draghi, a differenza di Meloni. Ha partecipato con ministri della Lega. Tutti argomenti che Meloni potrebbe ricordargli, di fronte a un conflitto. Resta il fatto che l’ex banchiere attira resistenze anche in altri settori della maggioranza. Non è un mistero che Giulio Tremonti non sia un suo estimatore. E che Forza Italia debba sulla carta sostenere il proprio candidato alla Presidenza della Commissione, che è Ursula von der Leyen.
Meloni, come detto, preferirebbe in realtà dare il via libera a un altro schema. Per la premier sarebbe assai più semplice avallare l’indicazione di Draghi alla guida del Consiglio europeo, assicurandosi così anche un commissario di centrodestra nella Commissione (che manca da cinque anni e potrebbe mancare per altri cinque). Non è un dettaglio irrilevante, perché si tratta di una poltrona ambita da diversi meloniani, ma anche di una moneta di scambio politico decisiva per ridefinire gli equilibri dopo le Europee. Ma la pressione dei partner continentali e atlantici e le possibili garanzie che derivano da una Commissione presieduta da un italiano potrebbero spingere a sciogliere positivamente il dilemma. E ad aprire una fase politica di certo nuova, probabilmente rischiosa. E chiudere una volta per tutte con l’estrema destra di Salvini e Le Pen.