Esiste un filo che lega la visionarietà di San Carlo Borromeo all’illuminismo lombardo. Quel filo porta a sentire come dovere che chi ha avuto tanto debba per forza restituire il tanto agli altri. È la ragione per la quale Marco Magnifico, vulcanico presidente del Fondo per l’ambiente italiano, pensa che un’organizzazione come la sua non poteva che nascere a Milano, la culla della borghesia. Cinquant’anni di campagne e impegno diretto nella salvaguardia del patrimonio culturale hanno fatto del Fai stesso un “luogo del cuore” per milioni di persone. Il «civile servizio» di Magnifico parte da uno snodo in gioventù. Elementari a Reggio Calabria, poi Varese per medie e superiori, l’esperienza bocconiana dura due anni. Finché il demone man mano gli si fa strada dentro. «Fu mia madre che a un certo punto lo realizzò per me. Mio nonno era un imprenditore, ma anche un grande collezionista di arte antica; la sua casa è stata il terreno nel quale il mio talento è germogliato. Mia madre era la prima di sette fratelli, come prima figlia femmina era adorata da suo padre, quindi non le dispiaceva la mia vicinanza a lui. Capiva che soffrivo e che facevo fatica a seguire la strada che invece mio padre, uomo di banca, voleva per me». Come i fatti s’incaricheranno di dimostrare, la finanza era decisamente distante. «Un venerdì sera nella nostra casa di campagna, mia madre mi disse: ma perché non lasci la Bocconi e ti iscrivi a storia dell’arte? Mio padre fu straordinario, aveva già preparato una scrivania per me accanto alla sua, non mi ha minimamente ostacolato, anzi mi ha incoraggiato. Solo più tardi mi mise in guardia quando gli comunicai di aver deciso di lasciare Sotheby’s per andare a lavorare al Fai, disse “non sarai mica matto!”. Erano ancora in pochi a credere nel Fai». Di quel nonno, Alberto Saibene, notissimo al suo tempo e di cui fu grande amico Federico Zeri, ricorda la velocità nel prendere le decisioni. «Da piccolo – avevo cinque, sei anni – andavo con lui dagli antiquari, non solo aveva un occhio formidabile ma neppure lasciava trasparire alcuna esitazione nelle sue scelte, nel dire “prendo questo”. E in un certo senso è quello che ho ereditato da lui. Quando vediamo un nuovo bene non ho dubbi se va bene, lo stesso se non va bene: è un istinto».
Voltate le spalle all’economia in senso stretto, Magnifico si laurea a Pavia con una tesi sul pittore rinascimentale milanese Bernardo Zenale. Di lì i primi passi al fianco di Giulia Maria Crespi («irruenta e libera»), uno slancio di intenti e vedute partito dalle varesate. «Erano passeggiate faticosissime che si facevano sulle montagne dietro Varese, di solito in febbraio, quando c’era tanta neve; eravamo una cinquantina di ragazzi capitanati da Giulia Maria e da suo marito, Guglielmo Mozzoni, che era di Varese. Si camminava, si affondava nella neve. Ero amico dei figli di Giulia Maria Crespi. In una di queste occasioni mi chiese chi ero, mi guardò e mi disse “tu hai l’occhio”, sul momento non capii proprio cosa volesse dire. Il lunedì mi telefonò dicendo che voleva che io entrassi nel consiglio di Italia Nostra di Milano, avevo diciannove anni, e lì piantai altri semi fondamentali per il mio futuro. Valutava le persone in base a quelle che “hanno l’occhio” o che non ce l’hanno, mi catturò e cominciai il mio lavoro a Italia Nostra».
Il cuore di Magnifico è alpigiano. «Anche quello della Crespi. In mezzo alla neve, in cima alla montagna d’inverno col freddo eravamo felici e ci si ritrovava in un mondo che ci univa, che ci apparteneva. Penso spesso che chi ama la montagna ha una percezione del divino, ed è più pronto ad ascoltare una voce superiore, perché in montagna regna il silenzio e si è soli». In anticipo rispetto ai tempi, la Crespi dalle idee «progressive», che fu erede dei proprietari del Corriere della sera fino al 1974, evocava la crisi della borghesia, dei padroni del vapore, denunciando il disinteresse per il bene comune. «Diceva sempre che chi ha avuto molto deve dare molto e peccato che non tutti la pensino così. La borghesia ottocentesca e anche dei primi del Novecento di Milano nasceva da questa volontà: i padiglioni degli ospedali di Milano sia del Policlinico che di Niguarda si chiamano molto spesso con i nomi delle grandi famiglie che li hanno finanziati, l’ultimo grande padiglione del Policlinico è il padiglione Invernizzi. Era normale, faceva parte dei doveri della grande borghesia. Mio bisnonno, che era un banchiere, costruì un asilo che si chiama Giuditta Fracaro, del quale la nostra famiglia tuttora si occupa; è nello spirito del cattolicesimo protestante che è la radice della milanesità». Sembrano parole di un mondo travolto dal ritmo vertiginoso del cambiamento. Eppure, ancora vivo in certi corsi sotterranei del presente. «La Milano di oggi è come è sempre stata la mia Milano, Milano accoglie, pur nel cambiamento e nelle difficoltà che ogni epoca porta con sé. Oggi è più difficile essere accoglienti, c’è molta più gente, lingue e culture differenti. Milano questo lo sa e ci sta pensando. Mi sarebbe molto piaciuto raccontare la storia di Milano città che accoglie nell’Albergo diurno Venezia, in Piazza Oberdan, peccato che il Comune di Milano non ci abbia creduto».
Quando si parla di salvaguardia torna in mente anche l’idea originaria di Elena Croce, la prima delle quattro figlie del filosofo, che invitava a seguire le orme del National Trust britannico con una entità associativa a salvaguardia del patrimonio ambientale e culturale italiano. «La Crespi diceva che più un progetto è inattuabile più è divertente cercare di realizzarlo, più è divertente cercare di realizzarlo più si è certi di riuscirci. Questo è il segreto del Fai, più un progetto è difficile, più ci si mette con tutte le forze per realizzarlo, non sempre ci si riesce naturalmente. L’orgoglio è di avercela fatta, quando abbiamo iniziato giravo l’Italia con un proiettore per diapositive, incontravo tutti i Rotary e i Lions senza raccogliere nemmeno un’iscrizione, e la maggior parte delle persone mi chiedevano “come mai la principessa Doria regala al Fai San Fruttuoso, ma che cosa c’è dietro?”. Si pensava al solito imbroglio all’italiana, la gente ha poi capito che non era un imbroglio».
Lo sguardo si rivolge con un balzo al futuro, tra entusiasmo e qualche preoccupazione. «Il Fai per consolidarsi sempre di più avrà bisogno di nuovi beni, soprattutto a Roma, Napoli, Firenze e Bologna, insomma le grandi città. La mia gioia però si realizza quando arrivano donazioni come l’alpeggio di Monte Fontana Secca, di fianco al Monte Grappa, aree interne, perché è lì che noi possiamo veramente fare la differenza per le comunità che si sentono, e purtroppo molto spesso, sono ai margini della vita del Paese e che non vogliono esserlo, ma che non hanno appigli. Il sostegno del Fai, nelle aree interne, fa la differenza per le comunità che soffrono la marginalizzazione e la fuga dei giovani dal proprio territorio».
C’è un tema fragilità, oggi la gran parte dei visitatori in arrivo dall’estero prende d’assalto le grandi città d’arte o i musei famosi. Andrebbe detto loro tourist go home? «Il timore è che se ne vadano gli abitanti. Le città saranno degli scheletri vuoti, senza vita, senza passione, senza anima. Sia per le grandi città che per i piccoli paesi come le Cinque Terre, è una questione di misura e la misura oggi si è persa. Non credo che ci siano molti romani che vanno ancora a vedere la fontana di Trevi». Si parla molto di fare delle bellezze dimenticate o nascoste un polo d’attrazione, in concreto è plausibile ridirigere i flussi di turisti? «Impossibile. Chi se la sente di impedire a un coreano di vedere almeno una volta nella vita Venezia? È un problema molto difficile. Quello che si può fare è aggiungere dei flussi turistici, per una fascia di pubblico che oggi è ancora limitata e che non decide di stare in Italia una settimana e vedere Venezia, Firenze, Roma, magari Napoli. È una proposta per il turismo italiano, perché è il turismo italiano che può fare la differenza nella piccola Italia meno nota, penso all’Abruzzo, alle Marche, e già questo cambierebbe le cose. Qui il nostro lavoro può essere importante».
Accanto al deperimento un pericolo altrettanto esiziale per i monumenti è il loro uso eccessivo. Crede nella limitazione della loro fruibilità? «Certamente. Siamo stati i primi, nel 2023, ad aver limitato l’accesso a Villa del Balbianello, a Como, decidendo di rinunciare al 30% dei visitatori con un danno economico notevole. Speravamo che il nostro esempio fosse seguito, ma tanti corrono il rischio di Re Mida senza saperlo». Un problema nel problema sono le competenze, legate per esempio alla cura di quello che lei ritiene un bene artistico a tutti gli effetti: il paesaggio. «Ancora di recente si è tentato di rendere il parere delle Soprintendenze obbligatorio, ma non vincolante per quello che riguarda la tutela del paesaggio. Questo ci dice che valore ha. Quando la Crespi, assieme a noi, fece una battaglia che durò dieci anni contro Mediapolis, un immenso parco tematico di 40 ettari che avrebbe dovuto sorgere sotto il castello di Masino, quindi tra il castello di Masino e la Serra di Ivrea – nell’anfiteatro morenico della Serra, uno dei paesaggi storici più straordinari del mondo – facemmo una battaglia e la vincemmo. Giulia Maria Crespi andò da uno dei finanziatori del progetto che le disse “ma signora, scusi, ma lì non c’è niente!”. Quindi il paesaggio come un luogo da riempire e non il paesaggio come un luogo da capire, da tutelare, e c’è ancora tanta gente che la pensa così».