Ci sono undici punti percentuali di differenza. In altri termini, metà delle donne italiane ancora non lavora. Va ancora peggio al Sud, dove la partecipazione femminile è ferma al 35,5%. Secondo l’ufficio studi dell’associazione di categoria, se in Italia si raggiungesse almeno il dato europeo di donne lavoratrici, avremmo 2,3 milioni di occupate in più. Tradotto: più ricchezza, più Pil. Lo Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, offre una lente di ingrandimento sui meccanismi che penalizzano le madri lavoratrici al Sud: una donna single senza figli nel Mezzogiorno ha un tasso di occupazione del 52,3%, il tasso scende al 41,5% nel caso di donne con figli di età compresa tra i 6 e i 17 anni e crolla al 37,8% per le madri con figli fino a 5 anni.
L’incrocio dei dati è eloquente: da una parte la partecipazione femminile al mondo del lavoro, in Italia, è timida rispetto ai numeri europei. Dall’altra, lo dimostra il dossier dell’Ispettorato nazionale, la maternità – o meglio la mancanza di servizi – incide ancora nel riportare le donne a casa. Soprattutto quando i figli sono piccoli: nel 58% dei casi le dimissioni arrivano da lavoratori/lavoratrici con un solo figlio o in attesa del primo figlio. La maggior parte delle dimissionarie (il 79,4% del totale) si colloca nella fascia di età tra i 29 e i 44 anni.
La relazione dell’ente pubblico parla esplicitamente di uno «sbilanciamento di genere di notevoli proporzioni» e del «radicamento sociale e stereotipale della funzione di cura come prettamente femminile». Se in famiglia devono esserci delle rinunce lavorative, gravano ancora sulla carriera delle madri e non dei padri.
Un’altra cifra conferma un luogo comune incrollabile: i nonni sono ancora il principale welfare familiare del Paese. Chi si è dimesso perché il lavoro non era compatibile con la cura dei figli motiva la scelta, nel 76% dei casi, con l’assenza di parenti di supporto nelle vicinanze. Nel quadro, si inseriscono anche differenze di classe sociale. In quasi il 93% dei casi, le donne dimissionarie ricoprono la qualifica di operaia o impiegata a causa della «diversa allocazione gerarchica di uomini e donne», scrive l’Ispettorato: un sistema «che vede le donne piu presenti ai livelli medio bassi della piramide organizzativa e poco presenti nelle posizioni decisionali».
I numeri sono stati pubblicati nella sostanziale indifferenza della politica. Commenta la senatrice Pd Cecilia D’Elia, portavoce nazionale della Conferenza delle donne democratiche: «I dati confermano che per le donne lavorare è difficile anche quando trovano un’occupazione perché non c’è condivisione del lavoro di cura, non ci sono servizi adeguati a sostegno della genitorialità».
Rilancia la collega ed ex sindacalista Susanna Camusso: «È il tempo non di commentare, ma di dare risposte concrete». Le due senatrici sono firmatarie di alcuni emendamenti alla legge di bilancio che guardano nello specifico all’occupazione femminile: «Riteniamo essenziale attuare il congedo paritario obbligatorio di cinque mesi, per condividere il lavoro di cura e non costringere le lavoratrici a conciliare con se stesse sacrificando progetti e obiettivi sul lavoro», spiega Camusso.
Un’altra proposta depositata dalle due parlamentari dem punta a introdurre una nuova norma che permetterebbe di prevenire le dimissioni «con percorsi di confronto/conciliazione presso gli uffici del lavoro per definire scegliere forme di flessibilità, anche incentivando le imprese che li scelgono».