Le parole possono essere potenti ma spesso sono ambigue, soprattutto se riferite a un testo difficile come una legge di bilancio. Quella appena approvata al Senato, è stata ufficialmente definita «prudente», termine che evoca la benevolenza e la saggezza di chi quella manovra propone e di chi l’approva, ossia del governo Meloni e della sua maggioranza.

Prudenti sono (o dovrebbero essere) i genitori con i figli e così i governanti con i governati. «Cari Italiani, abbiamo fatto il possibile (ossia redistribuito le risorse esistenti vista la sostanziale assenza di crescita); di più non potevamo fare»; bontà loro. Di certo si tratta di una manovra «austera» (ma solo qua e là). Sembra talora uno specchio per le allodole populiste di una destra, recentemente convertitesi, non solo alla giustezza dei vincoli europei ma perfino alla saggezza delle agenzie di rating e dei mercati finanziari, prima tanto esecrati. Non disturbiamo, quindi, il manovratore che ci sta portando fuori da quella «procedura di infrazione per deficit eccessivo», un tempo bollata come infamia contro la nazione e persino motivo per uscire dall’euro.

 

Manovra, i senatori delle opposizioni in piedi con i cartelli: “Voltafaccia Meloni”

 

Prudenza ora, anche se dovremmo gioire perché lo spread è al livello più basso degli ultimi decenni e lo è anche perché riforme attuate in momenti di ben maggiori difficoltà finanziarie non sono state smantellate. Nel frattempo, i “falchi” del Nord Europa sono diventati tutti o quasi propugnatori di politiche del debito più flessibili, se non altro per finanziare le ingenti spese militari, necessarie (ci dicono, e chi siamo noi per dubitarne?) e l’autonomia strategica dell’Europa.

Una legge di bilancio che si pretende ben diversa dalla perfida austerità imposta all’Italia, anni addietro, dalla Germania di Merkel (naturalmente per salvare le banche tedesche!) e da svariate istituzioni sovranazionali, viste come ossessionate dall’ideologia dei bilanci pubblici in sostanziale pareggio, come se avere bisogno di soldi ed esserne privi fosse una questione filosofica e non l’essere sull’orlo di un baratro. Ciò che era disprezzato come sudditanza diventa così virtù; ciò che era necessità per evitare una crisi profonda diventa scelta strategica di buon senso, persino coraggiosa, sostiene qualcuno. Andiamoci piano e diciamolo a chiare lettere: la manovra è modesta, il suo impianto non è privo di contraddizioni e il suo merito principale sta nel non esporci a un’impennata del rischio finanziario.

 

 

Tutto ciò è qualcosa ma non basta: manca la spinta di cui il Paese ha bisogno per tornare a crescere, tanto più ora che il Pnrr sta per esaurirsi, essendo stato, negli anni recenti, l’unico vero sostegno alla nostra gracile dinamica economica. Dietro la retorica con la quale la Presidente Meloni e la sua maggioranza esaltano le scelte politiche, anche la penultima legge di bilancio di questo governo finisce così per disegnare una “manovrina”, insufficiente anche solo a inquadrare correttamente i problemi strutturali del Paese.

Se non è lecito aspettarsi che una legge di bilancio li risolva – ci vuole tempo per consolidare un percorso di crescita dopo decenni di declino – almeno una strada verso il nostro futuro avrebbe potuto essere tracciata.

 

 

E questo per affrontare la crisi demografica; per dare maggiore stabilità al futuro dei giovani ed evitare che, già ridotti di numero, se ne vadano dal Paese; per consentire alle donne di acquisire, attraverso un lavoro dignitoso che ne rispetti e valorizzi le competenze, una vera indipendenza economica, e con essa una maggiore sicurezza; per disegnare una chiara strategia industriale che incentivi le imprese a innovare per accrescere la produttività e con essa i salari; per aiutare il Paese a collocarsi in modo adeguato nel nuovo mondo dell’intelligenza artificiale.

Non è questo il percorso che si intravvede nella nuova legge di bilancio. Come fa, per esempio, il Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che della crisi demografica dovrebbe essere ben consapevole, a dire candidamente: «È inutile girarci intorno: senza il secondo pilastro (ossia i fondi pensione), la previdenza sociale del lontano futuro non sarà assolutamente in grado di garantire delle pensioni dignitose»?. Bravo! Perché però non andare a monte del problema e dire, altrettanto chiaramente, che senza un lavoro buono e ben remunerato è illusorio pensare di poter avere buone pensioni? Che, soprattutto i giovani, con i lavori precari e poco pagati non riusciranno a risparmiare per la pensione integrativa?

Che il trasferimento del Tfr in base alla clausola del silenzio assenso può solo parzialmente sopperire e soltanto se le persone sono correttamente informate e consapevoli della scelta loro offerta? Come non ricordare al Ministro che questa del lavoro e dell’inadeguatezza delle retribuzioni è, insieme alla demografia, la vera emergenza strutturale del Paese?

 

 

Nel complesso, quindi, una manovra «incompiuta», di qualità limitata, anche dopo l’intervento del Quirinale. Una manovra con una forte dose di populismo (la questione delle riserve auree, «oro del popolo», e quella del prelievo una tantum sulle banche e assicurazioni che avrebbe dovuto essere adeguatamente preparato e meglio congegnato); e lo stillicidio di riduzioni e piccoli inasprimenti di imposte che, insieme ai bonus, complicano ulteriormente gli effetti redistributivi di un sistema fiscale già eccessivamente complesso; qualche incentivo fiscale per gli investimenti delle imprese ma senza una vera politica industriale.

E una modesta stretta sui pensionamenti anticipati, ma per fortuna senza l’abolizione del meccanismo di automatico adeguamento dell’età di uscita all’aspettativa di vita. Infine, anche qualche punta di esplicita cattiveria, come l’abolizione dell’opzione donna, una facoltà di pensionamento anticipato loro riservato e peraltro interamente a loro carico. O anche la riduzione dei fondi per la coesione sociale.

Senza naturalmente dimenticare l’immancabile ciliegina sulla torta dell’ennesimo condono fiscale.

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