
Le insidie di una missione
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Generali partita a due
17 Aprile 2025Iniziato 10 anni fa
di Federico Rampini
La partita «America contro il resto del mondo», come viene rappresentata un po’ frettolosamente la guerra commerciale scatenata da Donald Trump, è anzitutto uno scontro fra America e Cina. Prima e seconda economia del pianeta, queste superpotenze sono impegnate in una competizione a tutto campo: per la supremazia tecnologica, per il controllo strategico dell’Indo-Pacifico, per la leadership militare. Attribuire la loro tensione alle sole scelte del 47esimo presidente degli Stati Uniti, significa dimenticare i capitoli precedenti. Molto più aggressivi dal lato cinese: dal Covid al pallone spia sui cieli d’America. E segnati da un consenso bipartisan sul fronte statunitense. Ieri Trump ha bloccato le vendite di microchip Nvidia suscettibili di servire ai supercomputer cinesi: con quella decisione ha prolungato una politica di embargo sulle tecnologie avanzate che era stata perseguita dal suo predecessore democratico Joe Biden. La questione dei macro-squilibri commerciali — la strategia mercantilista con cui la Repubblica Popolare ha accumulato avanzi sempre più colossali — è solo un pezzo del problema cinese visto da Washington.
La revisione in senso critico cominciò dieci anni fa verso la fine del secondo mandato di Barack Obama, non a caso. Fu nel 2015 che Xi Jinping svelò la sua strategia «Made in China 2025»: si proponeva di sostituire l’America nella leadership di tutte le industrie strategiche e tecnologie avanzate.
N ello stesso periodo la Confindustria tedesca aprì gli occhi: quel documento di Xi annunciava la fine di un’età aurea per il made in Germany di cui i cinesi erano stati ghiotti acquirenti.
L’America e l’intero Occidente si erano illusi di beneficiare di una nuova «divisione internazionale del lavoro» — ai cinesi i mestieri operai, le produzioni di massa a basso costo come il tessile e calzaturiero, le industrie «sporche» come miniere, acciaio, chimica, cantieristica — e a noi le attività a maggior valore aggiunto come i servizi avanzati, il software. Ma già dieci anni fa Xi ci segnalava il suo progetto: rimanere sì la fabbrica del pianeta, e al tempo stesso diventare il laboratorio del pianeta, accerchiandoci dal basso e dall’alto, surclassandoci sia nella competizione sui costi sia nella qualità. Quando da una fabbrica cinese esce un’auto elettrica che non sfigura nel confronto con la Tesla, e costa meno, il cerchio si è chiuso. I democratici Usa sotto Obama e Biden si erano convinti di dover reagire, perciò la sinistra americana pullula di «falchi» anti-cinesi quanto l’entourage di Trump. Anzi è proprio nel partito degli Obama e dei Biden che la strategia di contenimento di Pechino è stata arricchita sul versante geopolitico: con la costruzione di alleanze tra democrazie dell’Indo-Pacifico (Quad e Aukus), con i ripetuti avvisi lanciati a Xi contro l’annessione violenta di Taiwan.
Oggi la guerra dei dazi ha creato un’atmosfera inedita. L’antipatia verso Trump è a livelli tali, che molti europei tifano per un’alleanza Ue-Cina, sperando che questa serva a dare una lezione al «bullo» americano. Essendo fresco reduce da un viaggio in Giappone, posso testimoniare che a Tokyo non ho trovato una simile tentazione: allarme e condanna per le mosse di Trump, questo sì, soprattutto nel mondo industriale; ma non al punto da dimenticare che la Cina rappresenta una minaccia superiore. Questo si spiega non solo con il fatto che le provocazioni militari cinesi sono all’ordine del giorno in quella parte del mondo, ma anche con una più precisa valutazione del ruolo economico di Pechino.
Si può dire ogni male dei dazi di Trump ma bisogna ricordare che il protezionismo non lo ha inventato lui. La Repubblica Popolare lo pratica da sempre, e non solo con dazi ben più elevati (fino a ieri). Le incarnazioni del protezionismo cinese sono molteplici, vanno da regole che sistematicamente favoriscono i «campioni nazionali», fino all’uso smodato degli aiuti di Stato. Per finire con l’imposizione — nei settori considerati strategici, inclusa l’automobile — di un «socio cinese» al quale l’investitore straniero deve regalare segreti tecnologici.
Nel costruirsi un modello di sviluppo trainato dalle esportazioni, e votato alla conquista sistematica del mercato mondiale, la Cina ha accumulato un eccesso di capacità produttive. Se si restringono i suoi sbocchi in America, rovescerà altrove uno tsunami di esportazioni. Perciò Ursula von der Leyen usa toni amichevoli verso Xi ma non intende allentare la vigilanza contro la sua concorrenza sleale.
Da come gli europei trattano con la Cina, potrà dipendere in parte l’evoluzione dell’atteggiamento di Trump? Il suo segretario al Tesoro Bessent lo ha detto apertamente. Il fatto che Trump abbia deciso di partecipare di persona alle trattative Usa-Giappone anziché delegarle alle delegazioni ministeriali è un fatto insolito, e può indicare la sua intenzione di «mettere il naso» in tutti gli aspetti della relazione bilaterale Washington-Tokyo: fra cui il dossier Cina. È un’avvisaglia che potrebbe riguardare gli europei inclusa Giorgia Meloni.
Xi Jinping ha lanciato la sua offensiva della seduzione, con una tournée diplomatica che lo ha portato dal Vietnam alla Malesia. Il leader comunista presenta la Repubblica Popolare come la superpotenza «stabile e affidabile»; nonché come un bastione del multilateralismo e delle frontiere aperte. Proprio i Paesi vicini, però, continuano a subire micro-aggressioni militari cinesi in acque territoriali contese. Trump sta pagando dei prezzi elevati in termini di abdicazione del soft-power. Tuttavia in molti, a cominciare dai Paesi asiatici, cercano di collocare questa crisi dei rapporti con l’America in un contesto storico di lungo periodo; e s’interrogano sui costi-benefici dell’eventuale alternativa, un ordine mondiale sinocentrico. Visto che tra i dossier più spinosi del dialogo Ue-Usa figura l’Ucraina, è impossibile dimenticare che l’appoggio della Cina all’aggressione di Putin è ben più antico, sostanzioso e determinante, dei gesti fatti di recente dal presidente americano.