NON DIMENTICHIAMOCI DI PLUTARCO
31 Dicembre 2022Nella luce di Adalberto Mecarelli
31 Dicembre 2022Filosofia Maurizio Ferraris inaugura la collaborazione con il «Corriere» riassumendo i termini del dibattito intellettuale con il suo maestro. L’apertura di un mondo libero dagli assoluti e il rischio di spianare la strada al populismo mediatico
di Maurizio Ferraris
L’addio alla verità del pensiero debole finisce per disarmare gli oppressi
«Svegliati, esci dall’infanzia!» è la frase di Rousseau che Kant pone in epigrafe a Che cos’è l’Illuminismo?, ed evoca appunto il titanismo razionalista.
Ma è la scelta giusta? Non è che la ragione ci impone vincoli anche più imperiosi della tradizione, e più implacabili perché certi del loro buon diritto? Ecco il nocciolo del pensiero di Gianni Vattimo, che tra pochi giorni compirà ottantasette anni pieni di scritti, pensieri e azioni. La ragione è esposta al rischio del dogmatismo, mentre la tradizione, quella che ci hanno insegnato da piccoli, può essere sempre interpretata, cioè alleggerita, con una ermeneutica ad hoc . Sulle prime, vedere un cattolico che invoca l’ermeneutica, ossia l’interpretazione individuale dei testi, Bibbia compresa, senza affidarsi al magistero della Chiesa, può apparire paradossale. Una volta ricordai a Vattimo il titolo del libro pubblicato nel 1819 da un sacerdote cattolico, Francesco Zamboni: Saggio di una memoria sopra la necessità di prevenir gl’incauti contro gli artifici di alcuni professori d’Ermeneutica . E gli chiesi: ma come fai, al tempo stesso, a dichiararti ermeneutico, ossia difensore del pensiero autonomo, e debolista, ossia teorico di un essere che magari si è anche rivelato un giorno, per esempio come un roveto ardente, ma il cui senso consiste tutto nella storia, ossia nella versione laica della tradizione apostolica tanto invisa ai protestanti?
Tuttavia, proprio qui sta l’intuizione che merita a Vattimo il suo posto di primo piano nella filosofia contemporanea, il capovolgimento di ogni dogmatismo, compreso quello che spinge Paolo, nella Lettera ai Corinzi, a proclamare: «Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede». Sarà vero? E soprattutto è necessario che lo sia? Non è più cristiano e umano il contrario? Cristo non è risorto, Dio e la sua manifestazione secolare, l’essere, si è indebolito, anzi, si è «camolato», ossia tarmato, ha scritto e detto Vattimo con un piemontesismo che incantava il suo amico Umberto Eco. Ma proprio per questo la nostra fede, la nostra speranza e la nostra carità ricevono il loro autentico valore, che non è un confronto con l’eterno o con la fine dei tempi, ma con la storia e il mondo umano. Ora, questo indebolimento, questo rifiuto del considerare la resurrezione un fatto oggettivo («Cristo è risorto! È veramente risorto» si dicono invece gli ortodossi nel giorno di Pasqua) rende intimamente cattolica la filosofia di Vattimo. Dal cristianesimo, prima che da Nietzsche, Vattimo trae l’idea della morte di Dio, cioè del passaggio dall’infinito al finito: non esiste alcun assoluto. Ma qui veniamo al momento specificamente cattolico: in Del Papa, opera ben più illustre di quella dello Zamboni, ma uscita lo stesso anno, Joseph de Maistre diceva che il cattolico non crede in Dio, ma nel Papa, ossia nel suo erede e rappresentante secolare, e nella tradizione che costituisce non una aggiunta alla rivelazione, ma l’essenza di un Dio che si fa uomo e storia.
Può sorprendere trovare il nome di un ultras della Restaurazione, le cui tesi sul Papa apparvero eccessive anche al loro presunto beneficiario, quando si parla di un filosofo che ha sempre pensato a sé stesso come a un rivoluzionario. Eppure ciò che nel 1819 era restaurazione nel 1983, quando esce Il pensiero debole, era rivoluzione contro le pretese egemoniche del sapere e della verità. Come nella barzelletta dei Gesuiti che ritrovano le spoglie di Cristo a Gerusalemme, e si stupiscono non del fatto che non sia risorto, ma che sia esistito, l’autore di Credere di credere trova irrilevante che Cristo sia risorto, o magari persino che sia esistito, perché quello che conta non è l’evento, accertabile o meno, ma l’effetto, l’apertura di un mondo libero da assoluti e da quella speciale forma di superstizione che è il pensiero critico, la pretesa di aver ragione. Ricordo di aver capito sino in fondo questo punto quando un tassista, a Napoli, commentò l’indignazione di uno cui aveva tagliato la strada passando col rosso: «Se ne approfitta perché ha ragione». E de Maistre non ha forse scritto che i protestanti, con i loro ragionamenti arzigogolati muoiono dalla voglia di aver ragione, sentimento inconcepibile per un cattolico?
La verità non esiste in natura, e sarebbe molto difficile anche solo concepire una pietra o un castoro interessati alla verità, che dunque non è oggettività ma interpretazione. E se Paolo poteva con tanta forza proclamare la certezza della resurrezione di Cristo, così come l’imminenza della fine dei tempi, peccava di ingenuità proprio come l’amante ebrea del giovane Talleyrand che (commentò una signora) si era fatta cristiana avendo appreso che Dio si era fatto uomo. Davvero Cristo è risorto? E davvero Dio si è fatto uomo? Ecco lo stato d’animo dominante nel postmoderno, ed ecco come il Pensiero debole, lanciato come un tormentone da D’Agostino in Quelli della notte, ha generato una forma di cultura civile che impone circospezione nell’uso dogmatico di parole come «verità» o «scienza»: parole che si può permettere Greta Thunberg per via della sua giovane età, ma che, in una persona più matura, suonerebbero sinistre come la pretesa di Colin Powell di avere le prove dell’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq. Rinunciando al più facile dei mestieri, il catastrofismo, il pensiero debole vede nella storia un avvenire destinato a durare a lungo, e il cui senso è l’emancipazione dell’umano dai vincoli che gli sono imposti dalla natura e dalla tradizione. E dico proprio «emancipazione» perché il processo non consiste nella liberazione di un Prometeo incatenato, ma piuttosto nella decisione di un Epimeteo emancipato di alleggerirsi, per esempio lasciando nell’armadio, a camolarsi, il cappotto siberiano reso inutile dal riscaldamento globale. «Non ci sono fatti, solo interpretazioni», la celebre e controversa frase di Nietzsche, diventa a questo punto il grimaldello con cui sabotare le pretese egemoniche di tutti i portatori di verità, che si tratti di scienziati, di filosofi, o di politici. Ed era proprio questo che mi aveva attirato ai corsi di Vattimo nella metà degli anni Settanta.
Non consideravamo, tuttavia, che i grandi artisti del governo non hanno alcun bisogno di servirsi della verità per esercitare la loro autorità. E che la verità è piuttosto l’unico strumento a disposizione degli oppressi. La favola del lupo e dell’agnello continua a insegnarcelo: non ho alcuna difficoltà a immaginare un lupo postmoderno capace di sostenere che gli argomenti dell’agnello sono il frutto di un dogmatismo scientista, e magari di una fisica newtoniana ormai desueta. Ricordo uno scambio all’epoca della declinazione più apertamente movimentista del pensiero di Vattimo, quella che si risolverà nella teorizzazione del comunismo ermeneutico. Gianni annunciava una conferenza intitolata «dal pensiero debole al pensiero dei deboli», e io gli dissi che il passo successivo sarebbe stato «dalla filosofia della miseria alla miseria della filosofia». Questo per dire i toni di un dialogo anche drammatico, ma mai serio. A me il pensiero dei deboli ricordava tanto il populismo, la dittatura del proletariato dei social che trasformano i politici non in influencer, ma in influenced. E, sempre per quello che mi riguarda, è stata proprio una esperienza storica a persuadermi che la fiducia nel ruolo decostruttivo dell’interpretazione era mal riposta. Perché il populismo mediatico che prese piede in Italia negli anni Novanta, anticipando una tendenza diventata mondiale, proprio quella che ha portato gli Oxford Dictionaries a eleggere «postverità» come parola dell’anno 2016, era la migliore dimostrazione degli effetti perversi dell’addio alla oggettività in nome della solidarietà, e del primato delle interpretazioni sui fatti.
Immagino che Gianni mi obietterebbe che questa conclusione non ha nulla di necessario, e anzi è ancora il segno di quell’oggettivismo da cui il pensiero debole insegna a emanciparsi, e io gli risponderei che anche questa è una situazione da interpretare. «Tu eri il mio amico, e io volevo solo provare la tua fede. Anche all’ultimo momento ti ho gridato: Abramo, Abramo, fermati!». È Dio che parla ad Abramo in Timore e tremore. Abramo si è sbagliato, per difetto ermeneutico o per semplice sordità non ha sentito che doveva fermarsi. E Dio, dio debole, anzi pasticcione, perché non è riuscito a evitare il male, si giustifica come può. Questa storia di equivoci è un po’ anche quella dei rapporti tra maestro e allievo: è Abramo che ci sente male o è Dio che si è sbagliato? In ogni caso, e per fortuna, nelle piccole vicende accademiche tutto avviene senza spargimento di sangue e senza conseguenze irrevocabili. Lo dico per esperienza, giacché non c’è stato un giorno, dalla prima lezione di mezzo secolo fa al momento in cui scrivo queste righe, in cui si è interrotto un dialogo spesso silenzioso, altre volte pubblico, troppo raramente, negli ultimi anni e per colpa mia, privato.