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25 Giugno 2023La Meloni faccia chiarezza
25 Giugno 2023La Russia è sull’orlo della guerra civile. Il mondo ha paura della guerra atomica. L’Italietta si perde nella sua solita guerricciola per bande. L’Aventino della maggioranza non si era mai visto. Nella Roma antica la secessio plebis nacque come forma di protesta dei derelitti contro l’arroganza dei patrizi padroni della Res Publica. Nella Roma fascista del Ventennio l’astensione permanente dai lavori d’aula fu la reazione politica di 123 deputati alla scomparsa di Giacomo Matteotti, sequestrato il 10 giugno 1924 e assassinato dagli squadristi del Duce. Nella Roma meloniana di oggi la diserzione dal Parlamento sembra l’unica, paradossale non-risposta che le tre destre al potere sono in grado di dare sui temi più inutilmente divisivi della fase. Hanno l’aritmetica, che tra Camera e Senato li blinderebbe contro qualunque pericolo di ribaltone. Ma non hanno la politica, che gli consentirebbe di liquidare in un amen la banale ratifica del Mes, se solo non fossero prigionieri di quella “ideologia che ci uccide”. Una frase che rimane scolpita nello scambio di messaggi tra gli alti e appassiti papaveri della Lega. E che marchia, nel fuoco di una grottesca “battaglia identitaria”, il corpaccione di una maggioranza in fuga. Da se stessa e dall’interesse nazionale, dal buon senso e dalla responsabilità. Tanto più in un momento in cui le sorti del pianeta sono appese al destino di Putin, il Tiranno assediato che minaccia la bomba nucleare tattica.
Il vero “stigma” – per usare la formula cara alla presidente del Consiglio – non è votare sì a una riforma di questo Fondo Salva-Stati. Che tutti i partner europei hanno già votato tranne noi.
Che non ci obbliga a nulla, non ci nuoce e ci conviene, come ripete il governatore di Bankitalia Ignazio Visco e come scrive il capo di gabinetto del Tesoro Stefano Varone. Ma tant’è: se proprio la destra Fratello-Leghista volesse comunque far finta di salvare quel po’ di faccia eurofobica che ancora gli è rimasta, basterebbe raccogliere il giusto suggerimento di Mario Monti: insieme alla legge che ratifica il Mes, approvate un ordine del giorno che impegna il governo a non usarlo mai, se non previo voto parlamentare a maggioranza qualificata. E invece non ce la fanno. Neanche ad accettare questa semplice clausola di salvaguardia. Piuttosto scappano. Dalle Commissioni parlamentari, dal Consiglio dei ministri, dalla realtà, dalla verità. La Sorella d’Italia si dilegua per imprecisati “impegni personali”. I senatori azzurri danno buca, forse il cane gli ha mangiato i compiti. Salvini urla, Nordio vaneggia, Giorgetti latita, Santanchè periclita. Insomma, e con tutto il rispetto: Silvio è morto, Forza Italia è morta e anche Giorgia non si sente tanto bene.
L’opposizione, che si sveglia sempre troppo tardi dalla pennichella pomeridiana e grida spesso troppo presto alla crisi di governo, è quasi altrettanto patetica. I due poveri cristi Schlein e Conte si sono fermati a Campobasso. La campagna elettorale di Roberto Gravina è senz’altro più agevole e meno rischiosa del corteo romano #BastaVitePrecarie, con Grillo&Ovadia incorporati. Il “Patto del crodino”, siglato al Bar Otter con foto di rito auspicabilmente più propizia di quella di Vasto, è sicuramente un piccolo passo per l’uomo ma un grande passo per l’umanità. Ma ai più sfugge che questo Aventino della maggioranza, benché non preluda ad alcun Papeete Bis, rivela che una crepa aperta nel muro di Arcore dopo la scomparsa del Cavaliere c’è. E su quella crepa bisognerebbe indagare, per fare quello che nessuno tra le nomenklature di palazzo ha fatto dopo il 25 settembre: cioè ragionare su cosa è successo in Italia, cosa è mutato negli umori profondi del Paese e soprattutto cosa può ancora cambiare nel prossimo futuro.
Al leader dei due schieramenti suggerirei la lettura di una mappa preziosa, elaborata da Itanes e appena pubblicata dal Mulino (“Svolta a destra? Cosa ci dice il voto del 2022”). Una miniera di numeri e di informazioni, che ridimensiona molte delle frettolose certezze acquisite in questi primi nove mesi di governo e smonta buona parte della narrazione mediatica e conformistica sulla nuova “egemonia culturale” dettata dalle urne. Che la destra abbia vinto con “indiscutibile nettezza”, e che Fratelli d’Italia sia “di gran lunga il primo partito della nazione” è evidente. Come lo è il fatto che quello di Meloni sia il primo “governo nato direttamente dal voto” del 25 settembre 2022, al contrario di quanto era accaduto nel 2018 e nel 2013. Quello che invece sottovalutiamo, ma che i dati e i flussi invece confermano, è che il successo delle tre destre non stato affatto determinato da un aumento dei voti, ma solo “dal funzionamento della legge elettorale e della traduzione dei consensi in seggi”.
Meloni, per vincere e conquistare la premiership, ha beneficiato di due fattori essenziali. Il primo è l’implosione dei Cinque Stelle, che hanno dimezzato i loro voti, si sono presentati da soli alle urne e così hanno regalato i seggi uninominali alle destre. Il secondo è il “drammatico incremento dell’astensione”, ingrassata essenzialmente dagli elettori in fuga dal Movimento e solo in minima parte “tornati a casa”, a destra e a sinistra. Il boom della Fiamma nasce da qui. La crescita del partito meloniano è stata “eccezionale sia in termini percentuali (oltre 20 punti) sia di voti assoluti (quasi 6 milioni di voti in più)”, ha sicuramente spostato il baricentro dell’alleanza, ma non è affatto il prodotto “di un rafforzamento complessivo della coalizione”, perché tutto quello che ha guadagnato Fdi lo ha perso la Lega. Dunque, numeri alla mano, lo sfondamento a destra “ha riguardato più il verdetto uscito dalle urne, amplificato dalle regola e dal mancato accordo tra gli oppositori, che non effettivi cambiamenti di posizione e di orientamento nell’elettorato”. Detta altrimenti: la massa degli italiani non si è “spostata a destra”, non c’è stato alcun “riallineamento dell’elettorato profondo e di lungo periodo”, non si può parlare di “trasformazione strutturale degli equilibri politici generali”.
Nello sfarinamento del centrosinistra e nel disorientamento innescato dalla pandemia, dalla guerra e poi dalla caduta dell’ennesimo governo tecnico di Draghi, gli elettori molto più banalmente hanno preferito “opzioni non testate in precedenza”, dando “una chance a chi non ha ancora deluso”. “Io sono Giorgia”, appunto, che certamente ci ha messo del suo, con un marketing politico simil-trumpiano tarato sul Make Italy Great Again. Una formula “non priva di efficacia, ma che risente del tipico approccio in cui la nostalgia per un passato immaginato, ma non autentico, si intreccia da un lato con l’eredità del passato reale, dall’altro con la promessa di prospettive brillanti poco credibili, visti i vincoli internazionali”. Questa è l’evidenza che sfugge allo sguardo miope delle classi dirigenti: a dispetto delle apparenze, il quadro politico in cui ci stiamo muovendo è assai meno consolidato di quel che sembra. Se avessero gli occhiali giusti, i patrioti si dovrebbero preoccupare, gli avversari si dovrebbero attrezzare.
La campana suona per la maggioranza, come dimostrano le fibrillazioni venefiche di questi giorni. Un vero spostamento d’opinione nel Paese non c’è stato. Le tre destre il pieno di consensi lo hanno già fatto, e una strategia di mobilitazione identitaria “non riuscirebbe ad andare oltre al perimetro” già consolidato. In politica estera, l’uscita di scena del Cavaliere aiuta a contenere la corrente filo-russa, ormai incarnata dal solo Capitano leghista. Ma ai problemi che incombono, dalla criticità della congiuntura economica al rapporto conflittuale con la Ue su Pnrr, Mes e Patto di stabilità, non serve più rispondere “con appelli identitari, miranti a marcare il territorio e a mobilitare le fasce sociali più simpatetiche” su temi di rilevanza oggettiva, come l’immigrazione, “ma che non vanno al cuore della gestione dello Stato e dell’economia”. I cittadini aspettano di vedere sciolti i nodi irrisolti della crescita, del lavoro, dell’inflazione, che verranno tutti al pettine dopo le europee del 2024. Meloni ha di fronte a sé un bivio. Può tentare davvero la metamorfosi, adottando un profilo riformista e non più antagonista, istituzionale e non più radicale, moderato e non più ideologizzato. O può cedere al richiamo della foresta, cavalcando i problemi, avvelenando i pozzi, polarizzando i conflitti. In un caso può pensare davvero a una legislatura costituente, nell’altro può soccombere velocemente.
La campana suona per le opposizioni, ancora una volta stordite dal pauroso allargamento del bacino del non voto e tradite dall’eterno tabù delle alleanze. Mucche in corridoio tanto per Elly Schlein quanto per Giuseppe Conte. Rospi che non si ingoiano con un aperitivo al bar. Secondo Itanes l’astensionismo ha devastato M5S ma ha colpito duro anche il Pd, che ha visto rinunciare al voto il 19 per cento di quanti lo avevano votato nel 2018 (quasi un elettore su cinque). La stessa cosa vale per i mancati accordi pre-elettorali. Insomma, le destre hanno vinto perché hanno mostrato “un maggior coordinamento strategico in funzione delle regole elettorali”, e perché hanno un elettorato che praticamente su tutti i fronti si presenta “omogeneo e allineato”. Viceversa, il centrosinistra ha perso perché “tutti i tentativi di coordinamento in quest’area sono sistematicamente falliti o non sono nemmeno iniziati”, e perché le sue diverse constituency politiche presentano orientamenti frammentati e “spesso contrastanti sulle questioni cruciali, a partire dal posizionamento ideologico”. Questo vuol dire che un cartello elettorale purchessia serve ma non basta, e che il famoso “campo largo” è necessario ma non è sufficiente, se mancano “legami di riconoscimento e fiducia intorno a proposte condivise”. È penoso che i primi non si cerchino e le seconde non si trovino. Con quello che sta succedendo a Mosca, sul fronte ucraino e sulle armi a Kiev non c’è più spazio per equilibrismi e “sovietismi” di sorta. Per il resto, ci sono autostrade vuote da percorrere. Dalla battaglia contro il lavoro senza tutele alla campagna contro le tasse come “pizzo di Stato”, dalla difesa della sanità pubblica al diritto allo studio, dalla modernizzazione digitale all’emergenza ambientale.
Siamo un Paese complesso. Mai davvero trasformato, forse ancora “in transizione”. Anche in politica, come del resto nella società civile, nulla è naturalmente scontato, nulla è definitivamente acquisito. Purtroppo o per fortuna, la democrazia italiana reduce dalle urne del 25 settembre resta ancora sospesa. La destra non è un destino. Ma la sinistra sarà mai in cammino?