Per capire di cosa parliamo quando parliamo di egemonia culturale, abbiamo chiesto alla massima autorità sul tema: lo storico Silvio Pons, presidente della Fondazione Istituto Gramsci. Per capire se la destra fa sul serio: perché il momento si vedono “solo” raffiche di nomine imposte nelle istituzioni culturali. Dunque un banale classico del potere tendente all’autoritario.
Professore, una nuova egemonia di destra, come riscatto della subalternità che la destra avrebbe subito nel corso dell’intera storia repubblicana. La teorizza il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, è diventato un grido di battaglia per tutta la maggioranza. C’è qualcosa di più che un esercizio di potere?
Intanto facciamo ordine sui termini. Una cosa è la legittimazione, altra l’egemonia culturale. Al momento la destra ha un problema di legittimazione in quanto forza di governo, un problema non troppo diverso da quello della sinistra dopo il crollo dei partiti di massa. Con una differenza: negli anni Novanta nel “nuovo” centrosinistra confluivano le storie dei cattolici di sinistra e dei post comunisti. La destra invece è stata una forza molto più marginale. Ma aveva un problema speculare a quello della sinistra rispetto al doppio principio di legittimità su cui si è fondata la Repubblica italiana: l’antifascismo della Costituzione italiana e l’anticomunismo della sfera di governo.
Dunque l’egemonia della sinistra ha i giorni contati?
Nella storia della Repubblica ci sono state due diverse forme di egemonia. Quella della sinistra o, meglio, del comunismo italiano fra i grandi intellettuali, dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni Settanta, fondata su alcuni elementi, ma primo fra tutti gli scritti di Gramsci: sono stati appunto “una risorsa egemonica”. Antonio Gramsci, come grande intellettuale e dirigente politico, legittimava la funzione nazionale del comunismo italiano. E il suo forte spessore culturale rimandava a un retroterra nazionale e internazionale che altre forze, anche antifasciste, non avevano. Anche per questo molti intellettuali furono attratti dal comunismo italiano. Questa forma di egemonia si è esercitata nella cultura alta, che nel partito di massa di Palmiro Togliatti riusciva a stare insieme con l’anima popolare. Almeno fino agli anni Settanta, cioè fino a che la questione comunista in Italia resta dirimente, perché una parte dell’opinione pubblica la percepisce come decisiva per creare un’alternativa alla Democrazia cristiana.
L’altra egemonia infatti era quella della Dc.
Se ne discute molto meno, ma gli storici la conoscono benissimo: era una comunione di valori fra la chiesa, il tradizionalismo e il familismo cattolico molto radicati fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Questo sistema coabitava con la centralità politica della Dc, che era un partito cattolico ma anche conservatore, e in qualche misura anche riformista. È un’egemonia politica, ma anche valoriale, penso al Concilio Vaticano II.
Oggi il tentativo della destra è credibile?
Se la frase catchword è “Non fare prigionieri”, non scomoderei il concetto di egemonia. Si tratta di una politica di quadri e di occupazione di tutti i posti possibili. L’egemonia esiste in quanto esistono idee e ideologie persuasive e convincenti per larghe fette dell’opinione pubblica. Oggi viviamo nell’epoca della cosiddetta egemonia neoliberale, ed è anche un ciclo lungo, dai tempi del reaganismo e del thatcherismo, e non sembra essere finita, neanche con la crisi del 2008. Sinceramente, altro ancora non si vede. Questo non significa che non ci siano dei progetti egemonici. Ma allora dobbiamo parlare di un contesto internazionale di destra non liberale in Europa, sia quella al governo, come nel caso dell’Ungheria, e prima della Polonia, sia all’opposizione. Che hanno una loro forza, tanto da dimostrare un potenziale di governo, come da anni è il caso francese. In questo caso forse possiamo parlare di un progetto che si riflette anche sulla destra italiana.
Un disegno unico fra destre tanto diverse?
Questo è un punto importante: Marine Le Pen si pone come un’alternativa non solo rispetto alle sinistre, ma anche rispetto al gaullismo. Questa dialettica è emersa anche in Italia. Siamo passati dall’egemonia di Forza Italia, che si autorappresentava come una forza del liberalismo europeo, a una destra diversa. Che prima Salvini ha provato a rappresentare; ma è stato un fuoco di paglia. Ora al governo è arrivata la destra quella vera. E ha ottenuto l’egemonia, sì, ma sullo spazio della destra italiana. Così come in Europa ci sono forze egemoniche rispetto a quelle liberalconservatrici. Ma attenzione: l’egemonia non si ottiene una volta per tutte, deve essere costantemente conquistata. E la destra, intanto per un tema di legittimità, deve assorbire e farsi portatrice di una cultura di governo. E quella cultura viene dalla destra liberale.
Quindi la Grecia conquista a sua volta Roma?
Sì, un fenomeno già visto in forme elementari nel tragitto dei Cinque stelle. Ma quel movimento non aveva una sua cultura politica. La destra di Giorgia Meloni invece non sono “i barbari”, è portatrice di una cultura politica che è esistita nella storia della Repubblica.
Ma erano «fascisti in democrazia», come diceva Almirante, e mal tolleravano la Repubblica.
Ma l’Msi a Roma negli anni Settanta era il quarto partito. Ma non solo. Ricordo il dibattito nel 1994, trent’anni fa. Alcuni di noi dicevano: Forza Italia è un partito-azienda, personale, senza intellettuali, tranne pochissimi e acquisiti più avanti; l’unica cultura politica che vediamo è quella del Msi, che ha una sua storia, anche se fuori dall’arco costituzionale. Oggi arriva a compimento quel percorso.
Il ministro Sangiuliano prepara una mostra su Gramsci «pensatore del concetto di popolo nazione» e «interprete dell’egemonia nazionale». Dobbiamo aspettarci un Gramsci di destra?
Ci aspettiamo un Gramsci classico del pensiero politico e della cultura nazionale. L’intenzione del ministro non solo è istituzionalmente corretta, è più che rispettabile. Che Gramsci sia soggetto a diverse interpretazioni lo sappiamo da sempre. Quella dell’interprete dell’egemonia nazionale è una lettura possibile, ha antecedenti nobili, penso a Benedetto Croce: di lui diceva «È uno dei nostri». Voleva dire che, per la prospettiva di tanti scritti dal carcere, si inseriva nella grande storia della cultura italiana. Da molti anni, del resto, il pluralismo delle letture è molto cresciuto, e questo perché non è più visto come un intellettuale legato solo alla storia nazionale italiana. Orma è consolidata la lettura di un Gramsci globale.
Il ministro salverà Gramsci dal comunismo?
Intanto Gramsci è sopravvissuto al comunismo. Non è solo una battuta: basta guardare a quante edizioni e traduzioni degli scritti si sono fatte dopo il 1989. La fortuna di Gramsci prima e dopo quell’anno è diversa: oggi è tradotto, letto e diffuso in tutto il mondo. In più, Gramsci ha lasciato un’eredità intellettuale molto più originale e viva di quella del leninismo e del comunismo fra le due guerre.
Gramsci però è il fondatore del Partito comunista.
È stato un leader del movimento comunista italiano e del movimento comunista mondiale. Ma è un classico, cioè una figura intellettualmente tanto elevata che in una certa misura l’opera trascende dalla biografia. Ma la biografia esiste. E la sua rimanda alla storia dell’antifascismo e dell’internazionalismo.
Si inventeranno un Gramsci sovranista?
Sarebbe una contraddizione in termini, era un cosmopolita.
Dovremmo di nuovo difendere Gramsci dai “fascisti”?
Non credo. I tentativi di appropriazione ci saranno sempre. Ma non vale solo per la destra. Ci sono già state lettura da parte di intellettuali di destra, a mio parere molto discutibili. Ma a quanto capisco sono un’altra cosa rispetto all’iniziativa del ministro. In una costellazione della cultura globale dei nostri tempi, Gramsci è uno degli italiani più letti al mondo.