Raffaele Fitto
giuseppe salvaggiulo
Sostiene Raffaele Fitto, il ministro che ha in mano il dossier del Pnrr su cui si gioca il destino del governo e del Paese, che «è questione di pochi giorni, poi sarà tutto chiaro. Io non mi faccio condizionare da attacchi al limite degli insulti, che mirano a screditarci in un gioco di sponda tra Roma e Bruxelles, né distrarre da un dibattito surreale come quello sull’uso dei fondi del Pnrr per il dissesto idrogeologico. Noi stiamo lavorando e porteremo in Europa fatti, non chiacchiere, per spiegare perché il Pnrr va smantellato e profondamente cambiato anche negli obiettivi. Altrimenti ci facciamo molto, molto male».
L’analisi di Fitto parte dai numeri, «scusate lo so che in Italia sembra strano o provocatorio, ma serve una diagnosi reale per non sbagliare terapia. In pochi mesi abbiamo monitorato l’utilizzo dei fondi europei 2014-2020. Tre anni dopo la scadenza, su 126 miliardi ne abbiamo speso il 34%. Vogliamo riproporre questo schema con i fondi del Pnrr che sono quasi il doppio (ai 220 miliardi bisogna aggiungere i 30 del fondo complementare), con meno della metà di tempo di spesa, regole e vincoli molto più rigidi? Il calcolo è facile. Giugno 2026 sembra lontano, ma è vicinissimo. Questo è il problema».
Idee chiare
La ricognizione dello stato di attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, decisa dal governo per rinegoziare i contenuti concordati da Draghi, è praticamente conclusa. Mancano alcuni dettagli, ma nella sostanza il dado è tratto e Fitto ha le idee chiare. Non si tratterà di cosmesi o di chirurgia di precisione, ma di uno «smantellamento con la revisione strutturale anche di alcuni obiettivi previsti due anni fa e ormai superati dagli eventi».
Questa è la conseguenza inevitabile che scaturisce dalla «oggettiva constatazione che «gran parte del Pnrr non è spendibile. C’è un problema di quantità di interventi e uno di qualità. Non si può spendere tanto per spendere. Quindi noi stiamo immaginando dei cambiamenti importanti. Ciò comporterà il definanziamento di una serie di interventi non strategici, su cui abbiamo acquisito la certezza di non realizzabilità».
Il catalogo non sarà breve. «Ci stiamo lavorando con senso di responsabilità». Sicuramente il capitolo infrastrutture sarà notevolmente sforbiciato. «Quelle grandi non sono tutte realizzabili, perché il sistema imprenditoriale italiano non è in grado di triplicare in un anno questo genere di interventi».
La trappola finanziaria
Si può stimare un taglio del 30% delle grandi opere. Quanto alle piccole, il problema è «la polverizzazione in decine di migliaia di progetti. Per lo più preesistenti al Pnrr, che per questo motivo richiedono un supplemento di valutazione. Serve una riflessione all’insegna del realismo, alla luce dei meccanismi di controllo europei: campionamento a sorteggio e restituzione di tutto il finanziamento in caso di mancata realizzazione anche solo dell’1% di un’opera, una beffa con effetti pesanti sulle finanze pubbliche».
Per Comuni e Regioni, che rischiano di perdere pingui fonti di spesa, si ragionerà su compensazioni con gli altri due fondi (sviluppo e coesione) che Fitto vuole mettere a fattore comune «secondo il principio dei vasi comunicanti», visto che hanno scadenze più lunghe e regole più lasche.
Guerra ed energia
Considerando che nel Pnrr ci sono 110 miliardi di opere pubbliche su 220 totali, l’impatto della revisione sarà gigantesco. Scartata l’idea di rinunciare ai fondi, si tratta di decidere dove ricollocarli. Sul punto vacilla persino la mitezza dorotea di Fitto, mai intaccata dall’approdo meloniano. «Si fa un dibattito surreale, privo di lucidità e concretezza» ipotizzando di cambiare i progetti in corso d’opera, a seconda dell’emergenza contingente: ieri l’immigrazione, oggi le alluvioni, domani chissà.
Il ragionamento di Fitto è che «non si possono sostituire gli interventi del piano, in gran parte ereditati dal passato, anacronistici e comunque in ritardo, inventandone di nuovi ancora da progettare e a maggior ragione irrealizzabili in tre anni. I ritardi nella spesa sul dissesto idrogeologico, con progetti per 2,5 miliardi già esistenti e inseriti nel Pnrr dal governo Draghi, dovrebbero essere una lezione. Bisogna cambiare gli obiettivi». A cominciare da alcuni dei 27 legati alla quarta rata da 16 miliardi, con scadenza a giugno. Entrano nella trattativa, che in ogni caso si chiuderà entro la fine di agosto. «Questa è la finestra, il momento di un’operazione verità».
Il bando flop
Della categoria «obiettivi non raggiunti» fa parte il bando flop sulle colonnine per la ricarica di idrogeno, su cui era sorta una «incomprensione» con la Corte dei Conti che aveva pubblicato un dossier di censura. Fitto, che aveva protestato, oggi rilancia: «Che colpa abbiamo noi se arrivano solo 36 domande per 40 colonnine? Come si fa a ipotizzare una responsabilità? E in ogni caso quella competenza è dell’Ue. Piuttosto, bisognerebbe pensare che l’obiettivo era sbagliato».
L’idea guida è spostare decine di miliardi verso gli incentivi alle imprese, con meccanismi automatici e rapidi, già sperimentati con successo perché minimizzano l’intermediazione delle pubbliche amministrazioni. «Incentivi che alla luce delle nuove regole sugli aiuti di Stato, ormai ammessi anche per il funzionamento delle imprese, servono a garantire la nostra competitività nei confronti di Paesi con forte capacità fiscale. La Germania ha messo sul piatto 200 miliardi. Noi non avremo spazio nemmeno con il piano RepowerEu in discussione, perché abbiamo preso tutta la quota a debito. Dunque dobbiamo rendere la nostra competitività industriale sostenibile. Altrimenti non reggiamo».
Il collegamento con guerra («possiamo mai immaginare che fosse prevedibile, quando fu lanciato il Recovery?»), inflazione e choc energetico sarà il grimaldello per invocare la norma del regolamento europeo che consente modifiche al Pnrr per oggettive circostanze sopravvenute.
Il doppio fronte
Il ministro non si nasconde difficoltà e incertezze della trattativa. «La Commissione sembra formalmente collaborativa, nei prossimi giorni capiremo se lo è anche nella sostanza». Resta l’indizio del blocco da gennaio della terza rata da 19 miliardi. «Noi abbiamo fatto tutto quello che dovevamo, stiamo aspettando una risposta dalla Commissione. Forse c’è un eccesso di attenzione. Peraltro quella rata riguarda il governo precedente, perché è la rendicontazione a fine 2022».
Quanto al fronte interno, le tensioni con gli altri ministri non sono mancate. «All’inizio alzavano molte resistenze, perché il nostro lavoro mette in discussione una loro grande capacità di spesa. Ora stanno collaborando perché hanno capito che così il Pnrr gli scoppierà tra le mani».
Perciò Fitto non teme «il fuoco amico», quanto un movimento magmatico e trasversale che «difende il piano così com’è, giocando di sponda con Bruxelles». E a cui attribuisce «gli attacchi al limite degli insulti» che riceve quando parla di questo tema, conditi da rappresentazioni macchiettistiche della trattativa con la Commissione europea, alla Totò e Peppino. «Falsità per colpirci e screditarci», chiosa senza voler «alimentare conflitti e polemiche, perché il Pnrr va attenzionato ma salvaguardato. Non è frutto del nostro governo, appartiene a tutto il Paese».