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22 Settembre 2024Tenere segreto il proprio mondo in Iran. Impossibile ieri, impossibile oggi. Ali Asgari, il regista iraniano di Kafka a Teheran, torna a raccontare la sua terra ne La bambina segreta. Patrocinato da Amnesty International Italia, il film, in uscita il 19 settembre, è stato presentato nella sezione Panorama al Festival di Berlino 2022, e finalmente arriva in Italia distribuito da Cineclub Internazionale Distribuzione.
Abbiamo incontrato Asgari durante il Festival di Venezia dove, a differenza di molti suoi colleghi, è riuscito ad ottenere il visto perché invitato dal Festival come giurato della sezione Orizzonti.
«Amo il cinema naturalistico che racchiude già di per sé il social drama, ma non mi piace raccontare la verità tout court, mi piace prendere qualcosa della verità e farla diventare una parte della storia. Ho scritto lo sceneggiatura insieme a un mio amico: lui ha vissuto in una famiglia numerosa composta da quattro sorelle, e anche io ho avuto invece sei sorelle e tre fratelli. Mio padre voleva controllare sempre la mia famiglia, soprattutto le donne, che invece volevano essere più libere. Raccontare una donna giovane madre single in Iran non è un tema facile, ma dovevo trovare una strada per realizzare un film del genere».
Come è riuscito a trovare i fondi?
«L’ho girato tutto a Teheran, la città dove sono nato dove vivono 16 milioni di abitanti: per questo genere di film non ci sono fondi tra sponsor, investitori privati e fondi governativi.
Sono abituato a girare film con pochi soldi. Così La bambina segreta è stato finanziato da me, da una produttrice iraniana e da un produttore francese. Lo abbiamo realizzato in venti giorni, anche se si girava spesso di notte con una bambina piccola».
«Ho realizzato tre film ma nessuno è mai uscito nelle sale del mio Paese, perché sono stato sempre stato censurato. Eppure per me è importante vedere i propri film insieme agli spettatori, soprattutto quelli del Paese di appartenenza perché si conosce la lingua originale del film e si comprendono tutte le sfumature della lingua, si conoscono i luoghi e le usanze. Sono, però, riuscito a trovare una distribuzione alternativa: riesco a rendere disponibili i mei film online gratuitamente e organizziamo incontri al bar, al ristorante o a casa dei miei amici. Questo è per me è una forma di resistenza contro le regole imposte e contro la censura».
In Iran si realizzano molti film. Come mai si produce tanto cinema?
«Nel mio Paese l’arte è molto presente, ci sono tantissimi artisti in tutti i campi, specialmente nel campo del cinema. Ma pochi, fino a quando non lo sperimentano, sanno che il cinema è difficile da realizzare e soprattutto da distribuire. Per questo spesso si realizzano film ma gli stessi autori non proseguono e si fermano alla prima opera».
Per i registi iraniani resta però importante il tema del visto.
«Poter uscire dai propri confini è un grande risultato ma spesso viene negato a noi iraniani ma anche a molti abitanti del Medio Oriente. Il visto non dato impedisce, con un atto politico, la libertà di partecipazione a un festival o ad un evento culturale. I conflitti e le guerre stanno generando paura dei Paesi Europei, ma fino ad esso sono sempre riuscito a viaggiare. Anche se, ad esempio, nel mio Paese nessun media ha pubblicato la notizia che fossi nella giuria del Festival di Venezia».
«Per me essere un giurato di una sezione competitiva come quella di Orizzonti è stato come vivere un sogno. Quando ho iniziato a studiare film pensavo al cinema italiano che mi ha formato. Per questo sono venuto in Italia a studiare cinema e quando nel 2014 un mio cortometraggio è stato in concorso ad Orizzonti si è realizzato una parte di un sogno. È una sensazione difficile da raccontare ma posso dire oggi che un altro sogno si è realizzato perché penso sempre al cinema da creare, in ogni istante che vivo, mentre mangio e mentre cammino. E lavorare per me è lo stesso che sognare».
Qual è il suo prossimo lavoro?
«Torno a Teheran per un documentario ibrido sulla mia famiglia, dal titolo Higher than Acidic Clouds. Forse è più un film di finzione che documentario, anche se l’emozione è il filo rosso che racconta il mio rapporto con la mia città, con le mie sorelle e il legame forte con mia madre. Per questo il mio cinema è molto femminile. Nella mia famiglia, porzione della società iraniana, le donne combattevano con un uomo, mio padre, anche sui piccoli aspetti della vita quotidiana per ottenere il più semplice dei diritti. Per me è diventato naturale raccontare queste storie, questo cinema».