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Il problema di Buen Camino non è che sia brutto, volgare o politicamente scorretto. Il problema è più profondo: è un film inutile nel senso più radicale del termine. Non perché manchi di mestiere o di pubblico, ma perché non produce attrito, non apre domande, non genera conflitto. Occupa spazio simbolico senza lasciarvi traccia. Funziona come un rumore di fondo rassicurante, una presenza che anestetizza invece di interrogare.
Il cinema di Zalone non è più satira né commedia nel senso forte. È diventato un dispositivo di gestione del consenso. Tutto ciò che potrebbe risultare problematico — denaro, religione, identità, migrazioni, sesso, politica — viene neutralizzato attraverso la battuta. Non per essere messo in discussione, ma per essere reso innocuo. Il potere non viene sfidato, viene reso simpatico; il pregiudizio non viene smontato, viene reso condivisibile sotto forma di scherzo. La risata non apre una frattura, la ricuce.
Le battute “scorrette” funzionano proprio così: simulano il rischio senza assumerlo. Non feriscono nulla, non espongono nessuno, non destabilizzano alcun immaginario. Servono solo a dare allo spettatore la sensazione di stare ridendo di qualcosa di proibito, quando in realtà sta consumando un prodotto perfettamente allineato. È una scorrettezza decorativa, senza conseguenze, buona per sentirsi liberi senza pagare alcun prezzo.
Il cuore ideologico del film è però altrove, ed è molto più conservatore di quanto sembri. La struttura narrativa è quella, ormai ripetitiva, della redenzione individuale: l’uomo ricco, vuoto e narcisista attraversa una crisi, perde qualcosa, cammina, soffre quel tanto che basta e alla fine “ritrova i veri valori”. Nessuna trasformazione del mondo, nessuna critica delle condizioni che producono disuguaglianza o solitudine. Tutto si risolve nella sfera privata. È una morale che assolve il sistema e responsabilizza solo l’individuo, perfettamente coerente con una cultura che ha smesso di pensarsi come società.
In questo senso Zalone non appartiene più nemmeno alla tradizione della commedia all’italiana, che era crudele, ambigua, spesso spietata verso i suoi personaggi e verso il Paese. Qui non c’è crudeltà né ambiguità: c’è una pedagogia elementare, quasi catechistica, che sostituisce il conflitto con il conforto. Il film non osserva la realtà, la addestra. Insegna come stare al mondo senza metterlo in discussione.
Anche l’ironizzazione sul “politicamente corretto” è stanca e priva di bersaglio reale. Non è una critica culturale, ma una scorciatoia retorica: un modo per strizzare l’occhio a un pubblico che vuole sentirsi libero di ridere senza essere chiamato a pensare. Il “radical chic” evocato è una figura fantasma, utile solo a evitare ogni confronto serio con il presente.
Alla fine, Buen Camino non è nemmeno un film da attaccare con rabbia. È qualcosa di più sottile e più povero: un prodotto che anestetizza. Non provoca scandalo, non apre conflitti, non lascia ferite. Riempie il Natale, rassicura, normalizza. La sua forza industriale è inversamente proporzionale alla sua necessità culturale.
Forse la critica più dura è proprio questa: non siamo davanti a un cinema reazionario o provocatorio, ma a un cinema che simula il dissenso per impedirlo. Un cinema che non racconta l’Italia, ma la culla. E mentre ride, la invita dolcemente a non svegliarsi.





