Per di più, questo scudo viene richiesto sulla scia di un precedente illustre: il gran falò a cui vennero destinate le captazioni della Procura di Palermo (che indagava sulla trattativa Stato-mafia) sull’utenza di Nicola Mancino al telefono con l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Allora fu decisivo proprio il conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale di fronte alla Corte costituzionale, che decise per l’inviolabilità pressoché assoluta delle conversazioni del Capo dello Stato (e l’immediata distruzione di quel materiale) in ragione delle sue alte funzioni istituzionali. Oggi un privilegio simile è invocato per todos caballeros: le uniche intercettazioni legittime saranno quelle preventivamente autorizzate dalla Camera a cui i parlamentari appartengono.
La tesi l’ha esposta qualche giorno fa l’avvocato Giovanni Guzzetta, il giurista che Palazzo Madama ha incaricato di perorare la causa del Senato di fronte alla Consulta in una vicenda che ha per protagonista Armando Siri, anche se la posta in gioco è molto più ampia. Il ragionamento di Guzzetta è questo: “L’articolo 68 della Costituzione (che disciplina il sistema delle guarentigie di cui godono gli eletti, ndr) è fatto per assicurare la serenità del parlamentare che si realizza solo quando l’intercettazione sia preventivamente autorizzata e neutralizzato l’effetto sorpresa. La norma che contempla l’uso delle intercettazioni casuali svuota questo obiettivo con un effetto che retroagisce sul comportamento del parlamentare se non può essere certo che l’effetto sorpresa possa rientrare dalla finestra: la sentenza di questa stessa Corte sul caso Napolitano contro la Procura di Palermo ha stabilito che nell’attività degli organi costituzionali di vertice dello Stato quell’esigenza di comunicazione, nelle quali non ci si deve preoccupare della parola in più o della parola in meno, costituisce un elemento essenziale. E ciò vale per il Presidente della Repubblica ma non può non valere anche per i parlamentari”. Tradotto: il parlamentare deve poter parlare serenamente e può essere intercettato solo se prima viene avvertito. Se finisce nelle intercettazioni perché parla occasionalmente con una persona indagata (e intercettata) oppure la persona indagata parla delle sue imprese con qualcun altro, allora quelle captazioni non possono essere utilizzate.
La richiesta dell’avvocato del Senato fa riferimento, appunto, al caso Siri, dopo che nel 2022 Palazzo Madama aveva negato ai pm di Roma la possibilità di utilizzare 8 intercettazioni potenzialmente micidiali per l’ex sottosegretario leghista (attuale superconsulente di Matteo Salvini a Palazzo Chigi) a processo per corruzione: è accusato di essersi dato da fare, dietro promessa di lauti guadagni, per favorire l’imprenditore Paolo Arata in affari col re dell’eolico Vito Nicastri, a sua volta considerato uno dei finanziatori della latitanza di Matteo Messina Denaro.
Le intercettazioni sull’utenza di Arata vennero ritenute dal Senato in parte non necessarie e in parte non casuali, con una decisione su cui la Procura di Roma ha sollevato conflitto di attribuzione di fronte alla Consulta. Dove l’altro giorno c’è stata la Carrambata: l’avvocato Guzzetta non solo ha difeso la decisione del Senato contestando l’operato dei magistrati sospettati di aver piena consapevolezza della abitualità tra Arata e il leghista. Ma ha anche chiesto, sempre per conto di Palazzo Madama, che la Consulta faccia di più: ossia che scriva a chiare lettere che l’unica procedura che fa salve le prerogative dei parlamentari è quella in cui sia stato preventivamente acquisito il permesso della politica a effettuare le intercettazioni che li riguardano. E pace se la stragrande maggioranza delle volte Camera e Senato comunque dicono no, meglio non rischiare. Parola alla Consulta: o la va o la spacca, in attesa del tana liberi tutti.