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C’è un movimento continuo, quasi coreografico, che attraversa la scena internazionale: incontri, telefonate, vertici, dichiarazioni ottimistiche e retromarce implicite. Un valzer diplomatico in cui i protagonisti cambiano passo senza mai fermare davvero la musica. Al centro, ancora una volta, la guerra in Ucraina, ma attorno ruotano Medio Oriente, Stati Uniti, Europa, Cina e le fratture interne delle stesse democrazie occidentali.
I colloqui tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky vengono raccontati come segnali di apertura, segnati da toni concilianti e da un cauto ottimismo. Si parla di progressi, di spiragli, di un possibile avvicinamento a un’intesa. Eppure, dietro le parole, restano ostacoli sostanziali: nodi politici, territoriali e simbolici che rendono l’idea di una pace ancora lontana. L’impressione è che il dialogo serva soprattutto a tenere aperto il tavolo, più che a chiudere davvero il conflitto.
Sul versante russo, il racconto insiste sulla valorizzazione del ruolo personale di Trump come mediatore. Mosca lascia intendere che il mondo guardi con favore ai suoi sforzi e che siano già in campo gruppi di lavoro e canali di cooperazione. Colpisce, in particolare, l’insistenza sulla “comprensione” mostrata verso le posizioni del Cremlino, anche quando queste mettono in discussione l’idea stessa di un cessate il fuoco preliminare. È un linguaggio che segnala una diplomazia fondata più sui rapporti diretti tra leader che su cornici multilaterali consolidate.
L’Europa, nel frattempo, prova a non restare spettatrice. Parigi si propone come sede di un nuovo incontro tra i cosiddetti “volenterosi”, ma il quadro resta fragile. Cresce la percezione di un continente politicamente indebolito, diviso tra il sostegno all’Ucraina e le contraddizioni aperte dalla crisi mediorientale. L’idea che il 2025 possa segnare un punto di svolta negativo per la credibilità europea prende forma proprio in questa sovrapposizione di dossier irrisolti.
Il Medio Oriente, infatti, continua a essere il grande campo magnetico della crisi globale. Tra Gaza, Iran e Hezbollah, la regione appare sospesa tra escalation e tentativi di riposizionamento. I contatti tra Trump e Netanyahu si moltiplicano, ma non senza tensioni: convergenze tattiche e divergenze strategiche convivono, mentre si discute di una “fase successiva” che resta volutamente vaga. Dopo oltre un decennio di guerre diffuse, il Medio Oriente sembra arrivato a un punto di svolta che potrebbe aprire a un nuovo assetto o precipitare in un’ulteriore frammentazione.
Queste dinamiche esterne riverberano anche all’interno degli Stati Uniti. Il conflitto mediorientale e il rapporto con Israele stanno alimentando fratture profonde nel campo conservatore, trasformandosi in un terreno di scontro identitario. Allo stesso tempo, l’amministrazione utilizza strumenti giuridici pensati per combattere le frodi come leva politica contro le politiche di inclusione aziendale, segnalando uno spostamento del conflitto culturale dentro l’apparato dello Stato.
Accanto ai grandi teatri di crisi, emergono segnali più silenziosi ma emblematici del cambiamento in corso. In Europa del Nord, la fine di un servizio postale secolare diventa il simbolo di un welfare che si ritira e di una trasformazione profonda del rapporto tra cittadini e servizi pubblici. In Asia orientale, invece, le manovre militari attorno a Taiwan ribadiscono che la competizione tra potenze non conosce pause e che ogni gesto ha valore di messaggio.
Nel loro insieme, questi frammenti compongono un quadro instabile e contraddittorio. La diplomazia si muove, ma senza una direzione condivisa; le parole di pace convivono con esercitazioni militari e pressioni incrociate; le alleanze si ridefiniscono senza mai consolidarsi davvero. Più che verso un nuovo ordine, il mondo sembra danzare su una soglia incerta, dove ogni passo può aprire uno spiraglio o innescare un nuovo squilibrio.





