Quando Giorgia Meloni è volata in fretta e furia a Mar-a Lago per chiedere a Donald Trump appoggio politico e riportare a casa la giornalista Cecilia Sala, in molti si sono chiesti – a fronte della restituzione dell’imprenditore Abedini, ricercato dagli Usa per terrorismo, all’Iran – che cosa avesse chiesto in cambio il presidente Maga per i suoi buoni uffici.
Ieri abbiamo avuto una prima, plastica risposta. L’Italia è stato l’unico paese europeo a non aver firmato una dichiarazione contro le vergognose sanzioni imposte da Trump contro la Corte penale internazionale. Insieme a noi, solo la Repubblica Ceca e l’Ungheria di Viktor Orbán.
Un auto-isolamento che mette il nostro paese fuori dal consesso delle democrazie liberali che si battono per la difesa del diritto internazionale. Sulla mancata firma alla dichiarazione congiunta pesano anche le tensioni tra Roma e l’Aia sullo scandalo Almasri, con i ministri Nordio e Tajani che – invece di spiegare i motivi per cui il governo ha liberato e restituito un criminale di guerra ai libici – hanno violentemente attaccato la Corte. Ma in realtà la scelta appare come la prima delle cambiali che Meloni pagherà a Trump, il quale spera che la premier italiana («lei mi piace molto») possa essere il suo cavallo di Troia per spaccare e indebolire l’Unione europea.
I Ventisette, nella dottrina Maga, non sono considerati veri alleati, ma rivali economici, sanguisughe che hanno fatto virare verso un profondo rosso la bilancia commerciale statunitense. Anche sulle minacce di nuovi dazi, con cui Trump in modalità Mackie Messer spera di piegare i paesi europei all’acquisto di gas, petrolio e armi Made in Usa, Meloni ha iniziato il suo lavoro di mediazione a Bruxelles. Che ha un obiettivo finale: convincere la Ue a “trattare” con Trump, evitando risposte sacrosante come quelle proposte dai francesi, che credono nel motto di Sandro Pertini: «A brigante, brigante e mezzo».
Il piano di Meloni e dell’estrema destra italiana è quello di provare a creare una special relationship con il magnate, strappando qualche vantaggio politico per l’Italia e per loro stessi. Ovviamente si sbagliano: Trump non vuole compagni di viaggio, ma solo ossequiosi vassalli che eseguono i suoi ordini quando più gli serve. L’interesse nazionale degli altri Stati è solo un impiccio.
Il caso Almasri e il pasticcio della Cpi in cui si è infilato il governo non è l’unica vicenda che imbarazza Meloni in questi giorni. Il terremoto dentro i nostri servizi segreti, che dipendono direttamente dagli uffici della premier e da quelli del sottosegretario Alfredo Mantovano, è evento tellurico che rischia – nelle prossime settimane – di esplodere, con conseguenze gravi e pesanti ricadute politiche.
Due casi su tutti: il primo è quello del probabile spionaggio di Stato avvenuto contro giornalisti e ong “ostili” al governo. Lo spyware – come segnala l’inchiesta di Stefano Vergine – è stato con ogni probabilità venduto dalla società israeliana Paragon al nostro Dis (il dipartimento di Palazzo Chigi che coordina le due agenzie di intelligence) e poi messo a disposizione di Aise e Aisi. Il governo ha negato che il trojan sia mai stato utilizzato dai servizi contro cronisti e volontari: se venisse dimostrato il contrario per l’esecutivo si aprirebbe una partita complicatissima da gestire.
Conflitto istituzionale
Al netto della vicenda la nostra intelligence – Aisi in primis – è squarciata da tempo da guerre intestine e da modus operandi che ricordano da vicino i tempi bui del Sifar e dei dossier di Pio Pompa. Le cronache del nostro giornale stanno lì a dimostrarlo. Il secondo caso è il rapporto segreto dell’Aisi pubblicato giorni fa da Domani: ha dimostrato come il capo di gabinetto di Meloni venisse regolarmente spiato dai servizi interni guidati da Mario Parente e dall’attuale vicedirettore del Dis Giuseppe Del Deo, operazione a cui ha partecipato anche un agente un tempo candidato per FdI.
Se Mantovano non ha finora spiegato i motivi dello spionaggio, il governo ha sfruttato la pubblicazione delle carte per denunciare Francesco Lo Voi, reo di aver depositato le carte riservate e averne di fatto consentito la discovery.
Ieri, con una mossa che non ha precedenti, il Dis – cioè Palazzo Chigi, che da pochi giorni ha nominato come nuovo direttore Vittorio Rizzi – ha denunciato con un esposto il magistrato alla procura di Perugia. Al netto delle scelte di Lo Voi, mai si era visto un governo che utilizza i suoi servizi segreti per denunciare un procuratore che ha iscritto per reati gravi gli stessi membri apicali di quel governo.
Un conflitto istituzionale inaudito, una mossa degna del Venezuela, certamente non di una democrazia in salute. Mala tempora currunt, e il futuro prossimo venturo rischia di essere anche peggiore.