ROSÀ (VICENZA) — «Terzo mandato per Zaia? Di rigore, ma non è più la priorità: la prima cosa adesso è cacciare Matteo Salvini, che sta trascinando la Lega nel baratro ». Nei bar, fuori dai capannoni e nei piccoli Comuni del Veneto profondo, si materializza la rivolta contro il leader, ridotto sotto il 4% dal voto in Sardegna. Il Carroccio qui non mugugna più, come dopo il sorpasso shock da parte di FdI alle politiche. Il popolo venetista con il mito dei Serenissimi, per la prima volta, alza il tiro e anche la voce. «Troppe promesse non mantenute – dice Andrea Gobbi nella sua officina – troppe decisioni e candidature calate dall’alto. Salvini la mattina dice una cosa e la sera giura il contrario. Il Ponte sullo Stretto al Nord non interessa e lui lo vuole. Gli immigrati ci servono e lui non li vuole. È tempo di cambiare sia il capo che la rotta».
Il mal di pancia esplode a metà mattina tra gli spritz del Centrale, storico quartier generale leghista di Rosà. La culla vicentina della Liga, trent’anni fa, elesse il primo sindaco bossiano: ora Salvini qui è al 2,6%, Giorgia Meloni al 33%. Dopo il tonfo di Cagliari, però, anche lo zoccolo duro si è rotto: la base è infuriata e le Europee di giugno diventano un incubo per gli stessi sindaci. «L’errore è stato non fare il congresso – dice Germano Racchella, sindaco di Cartigliano nel Bassanese – quando è stato imposto il cambio di strategia del partito, mettendo nel simbolo Salvini al posto del Nord. Eravamo territoriali e ci siamo svegliati personali: serve subito un esame di coscienza e poi cambiare strada». Quando si perde, tutti i nodi vengono al pettine: autonomia incagliata, terzomandato bocciato in Commissione al Senato, gelo Salvini-Meloni, voto europeo a rischio tracollo. La base non capisce più il suo «ex sindacato territoriale del popolo». Imprenditori e partite Iva presentano il conto di bilanci che non tornano. Ad aprire il fuoco l’assessore Roberto Marcato, che al vicepremier ha voluto dire che «dopo Zaia in Veneto c’è Zaia, punto». Messaggio: se non passa il terzo mandato vai a casa anche tu. A dichiarare ufficialmente aperto il processo è però il parlamentare europeo Gianantonio Da Re, ex sindaco di Vittorio Veneto e leader dell’ortodossia leghista. «Il 9 giugno – dice – assisteremo a un disastro annunciato. Un sondaggio interno dà la Lega al 5,5%. Il giorno dopo Salvini si deve dimettere. O il cretino se ne va con le buone, o andiamo tutti a Milano in Via Bellerio e lo cacciamo con le cattive. Ormai la pensiamo tutti così, a partire da 80 parlamentari che aspettano solo i numeri del voto per muoversi. Anticipare il congresso in primavera a questo punto non serve: Salvini ci ha disintegrati e deve assumersene la responsabilità». A far infuriare iscritti e amministratori, il «distacco dalla gente» del Capitano e della «cerchia ristretta che lo guida». Foza è l’esempio- simbolo. Nel centro asiaghese, alle Europee di cinque anni fa, la Lega ha stabilito il record nazionale di 7 elettori su 10 per Salvini: oggi FdI sfiora il 50%. «Il destino dei territori – scandisce Carlo Lunardi, militante da 35 anni – non si decide a Roma, ma nemmeno a Milano. La Sardegna conferma che l’autogoverno regionale assegna ai residenti il potere di scegliere da chi farsi rappresentare. Salvini promette tutto, ma non porta a casa niente».
Dopo il tonfo sardo, nel piatto del Nordest, tre portate da indigestione: il bis di Zaia, la leadership del partito e il duello europeo con FdI. Martedì il governatore al quarto mandato ha riunito i suoi, a porte chiuse, a palazzo Balbi. Alle Regionali 2025, ha assicurato, il brand Zaia comunque ci sarà: candidato governatore con la Lega, se Matteo strappa a Giorgia il via libera a una legge ormai ad personam, o candidato consigliere con una propria lista- partito, data oggi vincente. «Luca sarebbe comunque il più votato in Veneto – assicurano dalla segreteria di Alberto Stefani – e di fatto continuerebbe a governare ». La prospettiva è una minaccia per la tenuta dell’intero centrodestra, governo compreso. Di qui il no di Zaia a una riparatricecandidatura europea, implorata da Salvini, come il no alla successione nel partito. «Dopo le Europee – prevede Da Re – scatterà l’ora di Massimiliano Fedriga, l’uomo giusto per riportare la Lega alle origini. L’anno prossimo Zaia si candiderà come sindaco a Venezia e Mario Conte lascerà Treviso per correre da governatore in Regione. È tempo che Zaia, causa indecisione cronica, la smetta di tenere in vita Salvini: condannandoci a sparire». Alle imprese del Nordest lo scenario piace. Venezia, dopo gli affari di Brugnaro, ha bisogno di una star politica.
Nei sondaggi per le regionali il ministro meloniano Adolfo Urso, padovano di nascita, non sfonda. Il “traditore” Flavio Tosi, ora coordinatore di Forza Italia, non è stato perdonato e l’industriale Matteo Zoppas ha declinato l’invito. Lo schema Fedriga-leader a Roma dopo Salvini, Conte governatore del Veneto con Zaia sindaco a Venezia e azionista di maggioranza in consiglio regionale, scalda così la base dissidente. Non fa i conti però con il 9 giugno e con FdI. A oscurare la vista su Strasburgo, anche lo spettro del generale Roberto Vannacci. «Non scherziamo – il coro dei sindaci leghisti – se Salvini lo impone capolista, qui è la fine. In Europa saremo gli appestati, all’opposizione con Orbán e Le Pen, filo-Putin e nelle mani dell’estrema destra». A fare blocco, con Zaia e ancora in cauta difesa di Salvini, i fedelissimi da Massimo Bitonci ad Alberto Stefani, da Alberto Villanova a Luciano Sandonà. «Stavolta – dicono – ci giochiamo tutto». Se salta Zaia, salta Salvini: il contrario, confermano sia a Venezia che a Milano, dopo Cagliari però non vale più.