In fondo, come diceva Umberto Eco, sarebbe sufficiente, la sera, rileggersi Kant. La festa dellaLiberazione, come ogni anno, ha offerto spunti utili per ragionare su quali sono, oggi, i vecchi e nuovi confini dell’antifascismo. Il fronte progressista, come ogni anno, ha mostrato maggiore propensione a parlare del fascismo del passato (formula rituale: se non dite “x”, vuol dire che siete come Mussolini). E il fronte conservatore, come ogni anno, ha mostrato maggiore propensione a parlare del fascismo del presente (formula rituale: se non difendete la libertà di “x”, significa che i veri fascisti siete voi). L’Anpi, come ogni anno, ci ha offerto ragioni per ricordare che distanza siderale vi è tra i partigiani di oggi (così attratti da alcuni fascismi del presente) e quelli di ieri (che in piazza, quel 25 aprile, combattevano insieme con la Brigata ebraica, God bless). Il fronte del post fascismo, come ogni anno, ha tenuto a farci sapere, tranne in rare occasioni, che dirsi antifascisti senza dirsi anticomunisti è cosa sconveniente (ci sono 364 giorni all’anno per dirsi anticomunisti, un giorno all’anno ci si potrebbe limitare a dire di essere semplicemente antifascisti, senza se e senza ma, come ha detto ieri sul nostro giornale il presidente della Camera Lorenzo Fontana). E la brigata ebraica, come capita ormai da troppi anni, brigata a cui ieri abbiamo dedicato la nostra copertina, è stata insultata al suo passaggio a Milano, apostrofata con vari: “Assassini, fascisti, fuori la Nato dal corteo” (sarebbero questi gli antifascisti). Il cortocircuito più interessante andato in scena ieri sul tema dell’antifascismo del presente riguarda, come era facilmente prevedibile, una certa difficoltà da parte di alcuni importanti soggetti della vita pubblica (i nomi è persino superfluo doverli ricordare) a maneggiare con correttezza una parola che fu al centro dell’agenda dei primi antifascisti che festeggiarono il 25 aprile: pace. Sergio Mattarella ieri è stato autore di un discorso come al solito convincente, coraggioso ed equilibrato sul tema dell’antifascismo: “A differenza dei loro nemici, imbevuti del culto macabro della morte e della guerra, i patrioti della Resistenza fecero uso delle armi perché un giorno queste tacessero e il mondo fosse finalmente contrassegnato dalla pace, dalla libertà, dalla giustizia.
Oggi, in un tempo di grande preoccupazione, segnato, in Europa e ai suoi confini, da aggressioni, guerre e violenze, confidiamo, costantemente e convintamente, in quella speranza”. Due anni fa, il presidente utilizzò parole se possibile ancora più chiare di ieri per spiegare perché i pacifisti a volte hanno bisogno di difendere la libertà usando le armi e rinunciando a sventolare la bandiera bianca. “Nella ricorrenza della data che mise fine alle ostilità sul nostro territorio, viene un appello alla pace. Alla pace, non ad arrendersi di fronte alla prepotenza”. E ancora: quello che combatté, nel nostro 25 aprile, fu “un popolo in armi” che cercò di “affermare il proprio diritto alla pace dopo la guerra voluta dal regime fascista”. Perché la “libertà non è mai acquisita una volta per sempre e, per essa, occorre sapersi impegnare senza riserve”. E “per tutte queste ragioni la solidarietà, che va espressa e praticata nei confronti dell’Ucraina, deve essere ferma e coesa”. Mattarella, tra le righe, lo ha ripetuto anche ieri. Ma se possibile sul tema della pace un discorso ancora più forte rispetto a quello offerto dal capo dello stato lo ha fatto tre giorni fa, in un’occasione speciale, il cancelliere tedesco Olaf Scholz.
L’occasione nasce da una polemica interessante relativa all’eredità del filosofo Immanuel Kant. La Russia, da giorni, ha scelto di celebrare i trecento anni dalla nascita del filosofo appropriandosene.
Pochi giorni fa, il 22 aprile, a Kaliningrad, la capitale dell’exclave russa in territorio polacco, è stato organizzato un congresso internazionale dall’Università federale del Baltico, dedicato proprio a Kant, che visse e fu sepolto nella ex Königsberg dell’allora Prussia orientale.
Il governatore locale Anton Alikhanov ha definito Kant un “trofeo russo” e, come riportato il 23 aprile da Asia News, ha invitato tutti i presenti a offrire una nuova interpretazione della filosofia kantiana alla luce degli avvenimenti attuali, in quanto “la Russia si trova al centro di una poderosa guerra cognitiva, dove il nemico in parte si fa scudo proprio dell’eredità di Kant”. Il giorno dopo, Scholz, intervenendo all’Accademia delle scienze di Berlino-Brandeburgo per celebrare i trecento anni dalla nascita di Kant, ha attaccato duramente Putin, dicendo che il presidente russo “non ha il minimo diritto” di invocare il filosofo tedesco (Putin definisce Kant, nato in Prussia a Königsberg oggi Kaliningrad, il suo filosofo preferito), denunciando il tentativo della Russia di “appropriarsi” del pensatore e della sua opera “quasi a ogni costo” (all’inizio del 2024, Putin interpretò Kant sostenendo che “il suo appello a usare la propria mente è estremamente attuale: per la Russia, questo significa praticamente che siamo guidati dai nostri interessi nazionali”). Nel demolire il tentativo di Putin di appropriarsi del pensiero di Kant, Scholz ha offerto poi spunti di riflessione utili anche all’ipocrita internazionale del pacifismo modello bandiera bianca (sì, Giuseppe Conte, parliamo di te; sì, Elly Schlein, parliamo delle candidature; sì, Matteo Salvini, parliamo delle tue parole; sì, Michele Santoro, parliamo delle tue sciocchezze sull’Ucraina). Una pace “a ogni costo”, ha detto Scholz, non sarebbe tale. E come sostenuto proprio da Kant in un formidabile saggio intitolato “Per la pace perpetua”, pubblicato nel 1795, “chiunque venga attaccato può difendersi e non dovrebbe essere costretto ad accettare un trattato di pace che l’aggressore conclude con la cattiva volontà di riprendere la guerra alla prima occasione favorevole”. Come scriveva Kant, dice ancora Scholz, un tale accordo sarebbe “una mera tregua, un rinvio delle ostilità, non la pace, che significherebbe la fine di tutte le ostilità”. “Sono dell’opinione – ha detto ancora Scholz – che dovremmo tenere a mente l’avvertimento di Kant quando cerchiamo vie d’uscita dalle guerre del nostro tempo”. E dunque, vale per l’Ucraina ma vale evidentemente anche per Israele, un cessate il fuoco è auspicabile “se offre la prospettiva di poter intraprendere la strada verso una pace duratura e giusta”. Laddove non si potesse negoziare niente di meglio che un temporaneo rinvio delle ostilità, questo risultato sarebbe già il preludio alla prossima guerra. “Dove i diritti dell’individuo sono irrilevanti, dove c’è oppressione e arbitrarietà, non ci sarà una pace duratura”. E difendere la propria esistenza contro un aggressore crea il prerequisito che “l’Ucraina possa negoziare la pace liberamente e senza coercizione e che anche la Russia sia preparata per tali negoziati”. E crea il prerequisito per cui le democrazie libere, interessate alla difesa delle società aperte, sostengano l’Ucraina semplicemente “per tutto il tempo necessario”. Anni fa, lo ricorderete, nel 2011, il compianto Umberto Eco partecipò a una famosa convention antiberlusconiana, organizzata da Libertà e Giustizia al Palasharp, e rispondendo a una provocazione di Emma Marcegaglia (“l’Italia migliore va a letto presto”) disse che l’Italia migliore era quella che, come faceva Eco, andava a dormire tardi per leggere Kant. Leggere Kant prima di andare a dormire può essere una buona idea ma i turbo pacifisti allievi di Eco, e non solo loro, quando provano a leggere Kant dovrebbero fare uno sforzo e provare anche a capirlo. Specie quando Kant ricorda che volere una pace a ogni costo non significa chiedere semplicemente la pace, significa chiedere la resa. Significa tradire tutto ciò che ci ha insegnato il 25 aprile: riconoscere i fascismi del presente e provare a combatterli.