I biglietti della premier sul tavolo e la «bacchettata» per le sbavature: il governo non ne è uscito bene
31 Ottobre 2023La terza Repubblica come pericolosa arma di distrazione
31 Ottobre 2023
di Monica Guerzoni
Oggi vertice della presidente con i leader: maggioritario e premio del 55%. «Intatti i poteri del Colle»
Berlusconi e Renzi ci provarono senza fortuna e ora tocca a Giorgia Meloni percorrere la via della riforma costituzionale. E di corsa, perché la leader della destra ha fretta di portare l’Italia nella «Terza Repubblica». Una dichiarazione impegnativa, arrivata sotto forma di lettera inviata alla convention della Dc organizzata da Gianfranco Rotondi a Saint Vincent. Nel vertice di oggi a Palazzo Chigi i leader dei partiti vedranno la bozza finale del disegno di legge della ministra Maria Elisabetta Casellati, con il quale Meloni vuole introdurre l’elezione diretta del presidente del Consiglio.
«Abbiamo sulle nostre spalle una responsabilità storica, consolidare la democrazia dell’alternanza e accompagnare finalmente l’Italia nella Terza Repubblica», scrive Meloni. Con la riforma costituzionale la premier spera di scrivere una nuova pagina di storia, chiudendo la Seconda Repubblica nata dopo gli anni tempestosi di Tangentopoli. Sono passati decenni, il centrodestra «ha trascorso anche momenti difficili», ma è cresciuto, si è strutturato e oggi «aspira a essere la sintesi di tutte le idee maturate nell’alveo della tradizione conservatrice e cristiano-liberale».
L’ingresso nella «Terza Repubblica» dovrebbe avvenire grazie al disegno di legge in cinque articoli sul cosiddetto premierato soft, destinato ad approdare nel Consiglio dei ministri di venerdì. Il testo può ancora cambiare, perché Meloni e i suoi avrebbero ancora dubbi su alcuni passaggi decisivi. Oggi a Palazzo Chigi la premier farà il punto con Ciriani, Fazzolari, Mantovano, Salvini, Tajani, Lupi e ovviamente la ministra Casellati.
Anti-ribaltone
Non c’è la sfiducia costruttiva, ma una norma anti-ribaltone per garantire continuità
L’ultima bozza della legge, che entrerebbe in vigore alla fine del secondo settennato di Sergio Mattarella (2029), è da giorni a Palazzo Chigi, dove i tecnici si stanno confrontando con il Quirinale. Le forze di opposizione e anche diversi costituzionalisti temono che la riforma possa intaccare i poteri del capo dello Stato, minando l’equilibrio di pesi e contrappesi che sorregge l’architettura istituzionale. Elly Schlein ha già detto a Giorgia Meloni che il Pd non è disponibile a sostenere l’elezione diretta. «Un disegno spaventoso e sconclusionato», lo straccia il segretario di +Europa, Riccardo Magi. Ma Casellati difende il progetto, assicurando che «nessuno vuole toccare le prerogative del presidente della Repubblica».
Nel ddl il capo dello Stato conferisce l’incarico al premier eletto e mantiene il potere di nominare i ministri su indicazione del capo del governo, il quale non può revocarli. Non c’è sfiducia costruttiva, ma una norma anti-ribaltone per garantire continuità alla legislatura e impedire che i parlamentari cambino casacca. Se il premier si dimette o cade non si torna subito al voto. Il Quirinale può conferire l’incarico allo stesso premier uscente, oppure a un altro parlamentare, collegato al predecessore eletto direttamente dal popolo, purché sia votato dalla stessa maggioranza in entrambe le Camere. Questa formulazione, proposta da Forza Italia, non convinceva FdI, perché toglie al capo del governo il potere di «minacciare» il ritorno alle urne. «Se viene meno la fiducia nel premier si va a votare», è infatti il leitmotiv di Meloni.
Dopo le tensioni tra FdI e Lega sull’iter delle riforme e dell’Autonomia, ora dal Carroccio arrivano segnali rassicuranti. Il ministro Calderoli ha lavorato in tandem con Casellati, «il testo è stato condiviso e costruito insieme» e stamattina Salvini valuterà il risultato. La Carta viene modificata agli articoli 88, 92 e 94. Il cardine della riforma è l’elezione diretta del premier, il cui mandato dura cinque anni. C’è l’indicazione per un sistema elettorale maggioritario con un premio del 55% assegnato su base nazionale ed è prevista una sola scheda, con cui votare sia il premier sia le Camere. Renzi è favorevole, Calenda lo era ma ci ha ripensato, Conte resta drasticamente contrario. Per il leader del M5S il premierato indebolisce il Parlamento e spiana la strada all’«uomo solo al comando».