
The Supremes – You Keep Me Hangin’ On
7 Dicembre 2025
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7 Dicembre 2025Indicazioni geografiche: tutela, identità e il rischio di un’Europa-recinto
L’annuncio del commissario europeo all’Agricoltura Christophe Hansen arriva con la ritualità di un proposito lontano: un piano d’azione per le produzioni a indicazione geografica previsto nel 2027. La promessa è quella di “regolamentare ulteriormente” il settore e di presentarlo al meglio sui mercati extra-UE. Per ora, però, più che un piano esiste un calendario di buone intenzioni rinviato a consultazioni future e privo di una strategia definita.
Il forum di Siena diventa così il punto di partenza di un “ascolto” che assomiglia più a una presa d’atto dei limiti attuali. Hansen riconosce le difficoltà dei produttori in un contesto globale instabile, ma le soluzioni annunciate restano deboli: campagne di comunicazione, un premio sul modello del biologico, maggiore visibilità del logo Ig. Misure superficiali, che non incidono sulle vulnerabilità strutturali delle filiere né sulla loro capacità di competere.
Anche l’obiettivo dell’espansione verso nuovi mercati appare fragile. Si evocano “accordi di massima protezione” senza dettagli su strumenti, tempi o attori. E i 75 miliardi del fatturato europeo delle Ig restano un dato isolato, non accompagnato da un’analisi delle criticità: dalla concorrenza internazionale agli squilibri interni tra territori forti e territori fragili.
Intanto, la difesa dell’identità territoriale viene proposta come principio quasi sacrale, ma senza interrogarsi su come questa identità possa tradursi in politica economica. È qui che emerge una nota stonata. Sì, il sentore c’è, ed è tutt’altro che lontano. Il discorso sulle Indicazioni geografiche porta con sé un riflesso identitario che può sconfinare in un sovranismo morbido: quello che trasforma la tutela del territorio in una narrazione di eccezionalità nazionale e che usa l’Europa come scudo più che come progetto. E la domanda è inevitabile: quale Europa?
Tre aspetti lo mostrano con chiarezza.
Primo: la qualità vista come patrimonio minacciato dall’esterno, da difendere contro chi non riconosce o imita. Un linguaggio che riecheggia la retorica del “noi contro loro”, trasformando l’Europa in un campo di battaglia anziché in uno spazio di regole condivise.
Secondo: l’identità eretta a fondamento della qualità, caricata di un valore politico che rischia di sovrapporsi alle narrazioni nazionaliste oggi diffuse.
Terzo: l’assenza di una visione realmente europea. Si parla di un piano per il 2027, ma restano invisibili filiere comuni, alleanze industriali e strategie condivise. Prevale l’idea che “l’Europa debba difendere noi”, non che “noi dobbiamo costruire l’Europa”.
Così si alimenta un sovranismo agricolo silenzioso, che guarda più al perimetro da difendere che al futuro da costruire.
Ed è qui che la discussione va rimessa in asse. Non si tratta certo di mettere in dubbio la necessità di difendere i prodotti italiani. Il tema decisivo è che cosa significa difendere. La vera tutela non consiste nel chiudersi o nel blindare simbolicamente i territori. Difendere davvero significa rafforzare le filiere, innovare, costruire alleanze europee, dare ai produttori strumenti per affrontare mercati e trasformazioni. Non protezioni nominali, ma capacità reali.
Da questa scelta dipende tutto: se vogliamo una protezione che chiude o una protezione che investe sul futuro. È qui che si gioca anche il senso dell’Europa che immaginiamo: recinto o progetto.





