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24 Luglio 2022
di Giovanna Cavalli
Il cantautore: il tour con i Beatles? Non mi rivolsero la parola
Ischia, estate 1959. «Io e Mina, che si chiamava ancora Baby Gate, ogni sera cantavamo in due locali rivali, a cento metri l’uno dall’altro, io al Rangio Fellone, lei al Moresco. E quando finivamo, verso le tre di notte, passavo a prenderla con la mia Lambretta rosa salmone — l’avevo comprata grigia, poi me l’ero fatta ridipingere da un amico carrozziere — e insieme andavamo a svegliare qualche pescatore per farci preparare un piatto di spaghetti: chi ci apriva, chi ci mandava a quel paese. Eravamo diciottenni e spensierati, lei simpaticissima e, se mi posso permettere, una bonazza che si faceva notare», racconta meglio di una cartolina illustrata Peppino Di Capri (nato Giuseppe Faiella «finché il mio primo discografico mi chiese: “Come ti chiamano a casa?”. “Peppino”. “E di dove sei?”. “Di Capri”. “Ecco, da oggi sei Peppino Di Capri”»), 519 canzoni, 35 milioni di dischi venduti, 15 Sanremo, 2 vittorie e 83 gagliardi anni da compiere il 27 luglio e da innaffiare inevitabilmente con un «cameriere, Champagne».
Nel 1943, a quattro anni, Peppiniello suonava per le truppe americane.
«Nonno era musicista nella banda del paese, papà Bernardo aveva un negozio di strumenti, eravamo poveri, non possedevo giocattoli, solo qualcuno usato che i vicini mi regalavano per Natale — che delusione quando misi nell’acqua della vasca un cacciabombardiere di legno e affondò subito — il mio unico divertimento era un pianoforte scordato, imparai da solo a strimpellare i motivetti ascoltati alla radio e ogni fine settimana mia sorella Margherita, tre anni più di me, mi accompagnava all’hotel Morgano Tiberio, dove alloggiava il generale Mark Clark».
Le davano la paghetta?
«Sul piano c’era un piatto d’argento per le offerte, ci mettevano le Am-lire, banconote quadrate. Tornato a casa, svuotavo le tasche e andavo a letto. E la mattina, per farmi stare sveglio a scuola, mamma mi preparava tanto zabaione».
La maestra di pianoforte la cacciò.
«Elizabeth Rudolf, tedesca, severissima. Aveva scoperto che a sette anni la notte facevo il giro dei night, mi mandò via imprecando».
Nel 1956 partecipò a una gara canora in tv con Enzo Tortora.
«“Primo applauso”, una specie di talent dell’epoca, in onda sull’unico canale della Rai. Imitavo Johnny Ray, un cantante degli anni Cinquanta che piangeva e si strappava i capelli».
Già, i suoi capelli, una cofana ondulata, inconfondibile come gli occhialoni.
«Indomabili. Avevo tre anni e la vicina, la signora Trieste, si era fissata, voleva per forza farmi i boccoli con un ferro caldo, io mi arrabbiavo perché poi gli amichetti mi prendevano in giro. Negli anni Settanta invece, siccome andavano di moda, me li facevo arricciare io».
A quel concorso vinse un televisore.
«Uno in due, io e il batterista Ettore Falconieri detto Bebè. Non potevano tagliarlo a metà, perciò decidemmo di venderlo per 52 mila lire».
Autunno 1958, Peppino e i suoi Capri Boys salgono a Milano in cerca di gloria.
«Con la Fiat 1100 beige del sassofonista. Senza autostrade, un viaggio interminabile, arrivammo dopo giorni, conciati tipo Totò e Peppino. Sostenemmo una decina di provini per la Carish, cantando Malatia, Nun è peccato, poi ci dissero: “Vi faremo sapere”, un classico. Ero convinto che non ci avrebbero chiamati più».
Invece?
«Tornati a Roma, ogni mattina passavo al negozio di dischi, con il colletto del montgomery alzato per non farmi riconoscere, chiedendo se per caso vendevano l’ellepì di Peppino Di Capri. “No, chi è?”. Finché un giorno il commesso esclamò: “Anche lei? Oggi vogliono tutti il 33 giri di questo Di Capri, è una mania!”».
Che serataccia, con Aristotele Onassis.
«Suonavo al Number Two di Capri. Questo tizio inquietante, vestito di scuro, si piazzò per tutta la sera alla coda del pianoforte e mi fissava dietro gli occhialoni neri, non ne potevo più. Andai da mio zio Ciro che faceva il barman. “Zi’ Cirù, toglietemi da davanti questa ciucciuvettola , questa civetta”. Mi mollò una scoppola sul collo. “Suona e zitto, ha già ordinato sei bottiglie di champagne”. Scoprii dopo che al tavolo c’erano pure Maria Callas, Ranieri e Grace di Monaco».
Nel ’61 l’Italia ballò con «Let’s twist again».
«Tuttora il mio 45 giri più venduto, 1 milione e 200 mila copie, a parte quelle false. Era una cover di Chubby Checker, a mandarmi lo spartito fu Gerry dei Brutos, da Parigi. “Qui va fortissimo”. Una settimana dopo ogni stamperia di Milano stava incidendo il mio disco. Mi invitarono a cantarla a “Studio Uno” sulla Rai. Le ballerine indossavano per la prima volta le calze a rete, alle 17 del pomeriggio non era ancora arrivato il via libera della censura, fu il panico».
Un anno dopo cantava: «A St. Tropez, la luna si desta con te».
«Che poi non ci avevo mai messo piede. Ci andai tempo dopo con Gino Paoli, era inverno, tutto chiuso, una tristezza. Il sindaco mi consegnò le chiavi della città, grazie a me avevano triplicato i turisti. La ragazza che ballava il twist in copertina era una sconosciuta Raffaella Carrà».
Nel 1965 aprì i concerti italiani dei Beatles.
A St. Tropez con Paoli
Cantavo «e la luna si desta con te» ma in realtà non ci avevo mai messo piede. Ci andai tempo dopo, con Gino Paoli: era inverno, tutto chiuso, una vera tristezza
«Non ci hanno mai rivolto la parola per tutto il tour, il massimo della concessione è stata una foto insieme, pure un po’ scocciati. Dormivamo nello stesso hotel, loro avevano requisito un piano intero e noi, dalla nostra stanza, li guardavamo fare il bagno in piscina».
Per tre anni nel 1967 smise di cantare e si ritirò a Capri.
«Ero convinto che la mia carriera fosse finita. Divenni radioamatore, nome in codice Labrador. Non come il cane, come il marmo nero e argento che avevo in salotto. Poi un giorno, ascoltando Georges Moustaki, mi dissi: che ci faccio io qui? E tornai a Roma, treno di seconda classe. Bussai alle porte dei night, andava forte Fred Bongusto, con cui avevo stretto un patto: non scendiamo mai sotto un certo cachet. Mi proposi. Risposero: “Costi troppo, lui chiede il trenta per cento meno di te”. Furbone. Così mi abbassai il compenso e rientrai nel giro».
Alla grande. Nel 1973 vinse Sanremo con «Un grande amore e niente più» («Io e te, le nostre corse fin laggiù»), testo di Califano.
«“Aho, io vado a dormi’ alle cinque de matina, nun me scocciate, ve lascio er fojo sotto la porta” ci intimò. Claudio Mattone, suo amico, gli rispose con un biglietto: “Fa schifo, riscrivila”. Alla fine trovò le parole giuste. “Ragazzi, è perfetta, non si cambia una virgola” annunciai».
Stesso anno, «Champagne».
«A Canzonissima, arrivai quinto su nove in finale, vinse la Cinquetti, un disastro. Avevo passato la notte a compilare le cartoline di voto, senza nemmeno mangiare, spendendo una fortuna, però non c’era gara, il buon Mino Reitano ne riceveva a tonnellate. Mia zia si giocò al lotto i voti sulle palette della giuria e mandò la figlia in ricevitoria. Quella invece se ne andò a ballare, i numeri uscirono tutti e cinque, la zia non vinse niente e le diede un sacco di mazzate».
Quante volte l’avrà cantata, ha mica tenuto il conto?
«Almeno cinquemila, solo nei concerti, l’anno prossimo compie 50 anni. Se non la eseguo c’è la rivolta. Tutti la usano ai matrimoni, per il taglio della torta, ma lo hanno ascoltato bene il testo? “Per brindare a un incontro, con te, che già eri di un altro…”. Non mi pare tanto adatto».
Eduardo De Filippo le consigliò di cambiare mestiere.
«Albergo di Napoli, tramonto, entro, lui è in poltrona che legge il giornale, gli occhialini sulla punta del naso. “Guagliò, arapete ‘nu ristorante!”. Apriti un ristorante. Non gli piace come canto, ne dedussi. “Ricordati che la gente dovrà sempre mangiare”, aggiunse. Dopo sei anni lo incrocio di nuovo, stesso hotel, stessa poltrona, stessa posa. “Guagliò, t’aje araputo ‘o ristorante?”. Il dubbio che non gradisse mi è rimasto».
Nel caso, sapeva cucinare?
«No. Con la mia prima moglie Roberta preparavamo delle torte, che mettevamo a raffreddare sul davanzale, ritrovandole piene di formiche».
Quella di «Roberta, perdonami, ritorna ancora vicino a me»?
«In realtà quando la scrissi andavamo d’amore e d’accordo, non doveva perdonarmi niente, nel testo però suonava bene».
Totò le sottopose una sua composizione.
«Mi porse lo spartito, cominciai a suonare, il pezzo non era granché, non sapevo come dirglielo. “Principe, non è Malafemmena” azzardai. “O perbacco!” rispose lui, che si muoveva proprio come nei film. Roberta intanto rideva come una matta».
L’aveva conosciuta a Ischia.
«Era bella, indossatrice, notai la gonna rossa, ballava con William Holden. Le feci un complimento. La mattina dopo la trovai davanti al night, con in braccio un cucciolo di leopardo, pensai fosse matta. La rividi l’inverno dopo, mi lasciò un bigliettino sulla tastiera, con il suo numero di telefono».
Erano servite quelle ore passate sulle scale in piazzetta a imparare le tecniche di conquista dai playboy capresi?
«Macché, come playboy ero un disastro, risultati sotto zero. Una volta con un amico rimorchiammo due sorelle svedesi, bellissime. Le portammo a fare il giro di Capri, ci provammo in ogni modo, niente».
Il papà di Giuliana, la sua seconda moglie, scomparsa tre anni fa, non la considerava proprio un bellone.
«Le disse: “Chist s’ pò senti’ ma nun se pò vede’”. Morì, non ha mai saputo che me la sono sposata».
Champagne e matrimoni
L’avrò cantata 5 mila volte, se non la eseguo scoppia la rivolta. Tutti la usano nei matrimoni, ma io mi domando:
l’hanno mai letto il testo? Non è tanto adatta…
Memorabili le sue giacche di lamé.
«Me le faceva un sarto fiorentino con stoffe importate dalla Cina. Ne avevo una decorata con rami d’oro, uccellini e farfalle, su fondo nero, ci tenevo tanto, l’avevo poggiata sulla sedia, mi sono distratto per firmare un autografo — ero a Maranello — e quando mi sono girato non c’era più, quanto mi è dispiaciuto».