Caterina Soffici
Quando il corpo diventa uno strumento di protesta. E un’immagine diventa un simbolo di libertà. Per ricordare al mondo che le giovani donne iraniane lottano ancora ogni giorno per i propri diritti e vengono picchiate e muoiono in carcere. Nel silenzio più o meno generale, perché si preferisce parlare di missili e di guerra, scordandoci spesso che parlare di Iran e di regime vuol dire anche questo. Infatti è accaduto ancora, a Teheran. Dove una studentessa dell’Università islamica Azad è rimasta in mutande e reggiseno dopo essere stata aggredita dalla polizia morale per aver indossato il velo in modo inappropriato. Lei in biancheria intima e intorno donne avvolte da vesti e veli neri, un contrasto poderoso.
La storia si ripete e sembra di essere in un giorno della marmotta, dove ogni mattina le donne iraniane si svegliano e tutto ricomincia come il giorno precedente. Abbiamo iniziato a raccontare di Masha Amini due anni fa, la ragazza uccisa per aver indossato male il velo che ha dato il via al movimento Donna Vita Libertà. Poi abbiamo raccontato di donne che bruciavano il velo, di ragazze che cantavano e ballavano, di donne che mostravano i capelli e che li tagliavano, sempre in segno di protesta. Mai avremmo pensato di vedere una ragazza in biancheria intima in un luogo pubblico iraniano.
È accaduto sabato e la notizia sta rimbalzando sui social di tutto il mondo. Quella immagine è ormai un’icona. Capelli neri lunghi, scalza, mutande a righe e reggiseno fucsia: questa ragazza mette il suo corpo al servizio delle sue idee. Come fece quello studente cinese che da solo, con le borse della spesa, si pose in piedi di fronte alla colonna dei carri armati in Piazza Tiananmen. Il corpo come strumento, come la Libertà di Delacroix, che a seno nudo guida il popolo rivoluzionario. Il corpo nudo, come le Femen ucraine che si spogliavano per protestare contro ogni tipo di discriminazione del corpo femminile.
La ragazza è stata subito arrestata. E il direttore delle relazioni pubbliche dell’università Amir Mahjoub ha scritto su X: «A seguito di un atto indecente da parte di una studentessa dell’università, la sicurezza del campus è intervenuta e l’ha consegnata alle autorità di polizia. Il movente e le ragioni sono attualmente sotto inchiesta».
Questa la verità ufficiale. Che in Iran non coincide mai con l’altra verità, quella di chi combatte per la libertà. La prendiamo da Masih Alinejad, l’attivista iraniana minacciata dal regime che vive in esilio a New York. Sui social racconta: «Una studentessa molestata dalla polizia morale della sua università per il suo hijab “improprio” non si è tirata indietro. Ha trasformato il suo corpo in una protesta, spogliandosi fino alla biancheria intima e marciando per il campus, sfidando un regime che controlla costantemente il corpo delle donne. Il suo gesto è un potente promemoria della lotta delle donne iraniane per la libertà. Sì, usiamo i nostri corpi come armi per combattere un regime che uccide le donne per aver mostrato i capelli. Il fatto è accaduto all’Università di Scienze e Ricerca di Teheran». In un aggiornamento spiega poi che le autorità iraniane sostengono che la giovane donna soffre di una malattia psicologica ed è stata ricoverata in un ospedale psichiatrico.
Sempre dai social di Alinejad, perseguitata dal 2009, che guida un movimento per combattere contro l’obbligo del velo: «L’accusa di instabilità mentale è una tattica familiare della Repubblica islamica. Nel 2014, quando ho lanciato la campagna My Stealthy Freedom contro l’hijab obbligatorio, il regime ha usato bugie simili contro di me, sostenendo che ho avuto un esaurimento mentale, mi sono spogliata nella metropolitana di Londra e sono stata violentata da tre uomini. Questo è il modo in cui cercano di indebolire chi si oppone alla loro oppressione».
Il racconto di una studentessa, che ha assistito all’intero incidente, contraddice totalmente la narrazione del regime: «Sabato 2 novembre abbiamo visto le forze di sicurezza dell’università e le milizie morali cercare di trascinare con la forza una studentessa nella sala di sicurezza, con il pretesto che non indossava un hijab adeguato. La studentessa ha opposto resistenza e nella colluttazione le è stata strappata la felpa, lasciandola con solo gli indumenti intimi. Choccati, gli agenti di sicurezza l’hanno lasciata andare, dopodiché, in un momento di rabbia, si è tolta i pantaloni e li ha lanciati contro gli agenti». L’ennesima donna che rischia la vita in prima persona con un coraggio non misurabile in una scala realmente comprensibile nel nostro Occidente, dove la democrazia e la libertà sono date per scontate.