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Antonio Carioti
L’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023 e la conseguente guerra di Gaza hanno scosso il mondo ebraico, nel quale si sono manifestate posizioni molto diverse, riguardanti il Medio Oriente e non solo. Ne abbiamo discusso con gli autori di due libri importanti: il demografo Sergio Della Pergola dell’Università ebraica di Gerusalemme, che ha appena pubblicato dal Mulino Essere ebrei, oggi, e Gad Lerner, di cui esce il 21 maggio il volume Gaza. Odio e amore per Israele (Feltrinelli).
SERGIO DELLA PERGOLA — Comincerei con una metafora calcistica: Lerner è un fine analista di una partita che vede dalla tribuna; io sono un modesto giocatore impegnato sul campo verde. Infatti vivo in Israele, mentre Gad, pur frequentando lo Stato ebraico, non è nella condizione di chi ha parenti coinvolti nella campagna militare a Gaza e ogni tanto deve correre nel rifugio perché piovono missili. Inoltre il libro di Lerner è una ricerca qualitativa, riporta voci da lui selezionate, mentre il mio discorso è quantitativo, si basa sulle opinioni di un pubblico anonimo. Cogliamo tendenze analoghe, ma le conclusioni non sono necessariamente le stesse.
GAD LERNER — Per rimanere nella metafora sportiva, devo esprimere la mia ammirazione per il mediano Della Pergola che gioca in campo da protagonista in Israele, dove ha assunto posizioni molto critiche verso il governo di Benjamin Netanyahu. Ma lui sa bene che ormai la distinzione tra ebrei israeliani ed ebrei della diaspora si è molto sfumata. I miei genitori sono nati lì, i miei figli ci hanno abitato, ho parenti nell’esercito e altri che rifiutano l’arruolamento. Proviamo la stessa ansia e le stesse lacerazioni. Ricordo l’esitazione di Primo Levi, nel lontano 1984, in procinto di rendere note le sue critiche severe a Israele. «Da laggiù mi scriveranno: troppo comodo farci la lezione, ebreo italiano seduto in poltrona!». Ma poi, con pacatezza, Primo Levi non si tirava indietro. Fino a sostenere che, per il bene di Israele, il baricentro dell’ebraismo doveva tornare nella diaspora, custode del filone della tolleranza. Oggi, di fronte al pericolo di uno snaturamento del sionismo, tocca a noi che amiamo Israele dissentire pubblicamente.
Approfondiamo il tema del rapporto tra la diaspora ebraica nel mondo e lo Stato d’Israele.
SERGIO DELLA PERGOLA — C’è un allontanamento reciproco tra Israele e gli ebrei americani, i più numerosi della diaspora: il fenomeno si accentua molto nelle generazioni più giovani, come dimostrano le proteste a favore della Palestina nelle università degli Stati Uniti. Quanto all’ebraismo italiano, vedo un quadro assai differenziato: non mancano le critiche ragionevoli e motivate verso l’operazione a Gaza, ma ci sono anche personaggi che assumono posizioni inaccettabili, negando ogni legittimità a Israele. Insomma, la diaspora mi pare profondamente divisa, così come lo è la società dello Stato ebraico.
GAD LERNER — L’ebraismo americano e quello italiano sono difficilmente confrontabili: oltre sei milioni di persone negli Stati Uniti; poco più di 20 mila nel nostro Paese. Sono stato di recente a New York, dove mio figlio Davide ha conseguito il master di giornalismo alla Columbia University, un ateneo a forte presenza ebraica, dopo aver lavorato tre anni al quotidiano «Haaretz» a Tel Aviv. Mi ha impressionato vivere la spaccatura descritta da Della Pergola. Israele dovrebbe chiedersi perché la sua reputazione sia tanto controversa nel Paese che gli è più amico. E se la Casa Bianca vive con crescente imbarazzo il rapporto con Netanyahu, impressiona il rigetto crescente fra i giovani, compresi molti ebrei americani. Basti pensare che nell’accampamento di protesta alla Columbia University, poi sgomberato dalla polizia, non pochi studenti e professori hanno celebrato la cena della Pasqua ebraica in mezzo alle bandiere palestinesi.
E nel nostro Paese?
GAD LERNER — L’ebraismo italiano ha tradizioni antiche ma è numericamente esiguo. Almeno in apparenza non vive la dialettica interna che la guerra di Gaza ha acuito altrove. La sua rappresentanza istituzionale ha per titolare esclusiva l’Unione delle comunità ebraiche (Ucei), i cui portavoce sono eletti dagli iscritti, spesso dopo accese competizioni che restano però solo interne. Sicché poi sembra vigere una regola ferrea alla quale io mi sottraggo: noi stiamo con chi governa Israele, chiunque sia e qualunque cosa faccia. Nei bollettini dell’Ucei posizioni ebraiche di critica alla conduzione della guerra di Gaza non vengono neppure riportate. Nei confronti dei dissidenti fioccano accuse di tradimento, proibito denunciare gli errori di Israele.
Come giudicare oggi la politica dello Stato ebraico?
SERGIO DELLA PERGOLA — Bisogna in primo luogo distinguere fra la società d’Israele e il governo in carica, mentre il discorso che prevale su questi temi, assai deludente, tende ad appiattire tutto. Quando si generalizza dicendo «voi israeliani», si precipita in un baratro di pregiudizi. Il governo Netanyahu è emerso da una lunga crisi politica in cui gli elettori sono stati chiamati alle urne cinque volte. In questo ha pesato anche il sistema elettorale proporzionale, che è un po’ la madre di tutte le sciagure. Siamo di fronte a un’egemonia della destra che, sia pure con importanti interruzioni, dura da quasi un trentennio. E abbiamo assistito a un’involuzione gravissima della politica, anche per la commistione tra gli interessi pubblici e quelli privati del primo ministro.
Però una parte di Israele si è ribellata.
SERGIO DELLA PERGOLA — Nel corso del 2023, fino al 7 ottobre, è emerso un movimento che ha dimostrato una maturità e una coscienza civile sorprendenti nell’opporsi a famigerate riforme governative che mettevano in pericolo lo Stato di diritto. Ciò dimostra che generalizzare è sbagliato.
È giusto accusare Israele di aver rimosso la questione palestinese?
SERGIO DELLA PERGOLA — Ci sono stati ritardi ed errori, imputabili non solo a Netanyahu, ma anche a molti dei suoi predecessori. Tutto nasce dalla guerra dei Sei giorni del 1967. Io allora ero a Gerusalemme, dove avevo iniziato da poco gli studi per il dottorato di ricerca. Ricordo ancora il boato delle cannonate vicino al campus e la corsa verso i rifugi sotterranei. Quel conflitto ha creato problemi geopolitici tuttora irrisolti. Ma rammento che nel 1967 l’opinione più diffusa era che Israele avrebbe dovuto restituire i territori conquistati in cambio del riconoscimento da parte dei Paesi arabi. Però non è andata così: la pace è stata raggiunta con l’Egitto e la Giordania, ma gli accordi di Oslo con Yasser Arafat sono stati una grande delusione.
Lo Stato ebraico non ha responsabilità?
SERGIO DELLA PERGOLA — La posizione di Israele con il tempo si è spostata nettamente in senso nazionalista. La sinistra è quasi scomparsa, il centro ne ha preso il posto e si è molto rafforzata la destra, anzi sono cresciute forze ultranazionaliste e messianiche che oggi fanno parte del governo. Netanyahu a sua volta ha convinzioni ideologiche, ma fondamentalmente è un pragmatico: cresciuto negli Stati Uniti, ama il lusso e ha poco in comune con i suoi concittadini. Per certi versi rappresenta un anacronismo. A lui si deve la scelta di non avere una controparte seria: pur di non trattare con l’Autorità nazionale palestinese, ha favorito Hamas, nemico acerrimo dell’Anp, con il risultato che abbiamo visto il 7 ottobre. Si è trattato di un grave errore strategico, dalle conseguenze disastrose.
GAD LERNER — Quando gli storici guarderanno da lontano la lunga vicenda del conflitto arabo-israeliano, penso che smetteranno di usare l’espressione guerra dei Sei giorni. Bisogna parlare piuttosto di una guerra dei 57 anni. Nel 1967 ero un ragazzino e ricordo le emozioni di quei giorni, quando il presidente egiziano Nasser minacciava di gettare in mare tutti gli israeliani. Mi sono tornate alla memoria di recente conversando con il palestinese Bassam Aramin dell’associazione Parents Circle, di cui fanno parte genitori arabi e israeliani che hanno perso figli nel conflitto. Lui ha avuto la figlia uccisa davanti a scuola da un soldato. Bassam ha ricordato i suoi sette anni di carcere nello Stato ebraico e ha detto: «In cella mi sono interessato alla Shoah, per capire meglio i miei nemici. Ho capito che siamo destinati a convivere; che non ha senso buttare a mare gli ebrei… anche perché sanno nuotare e di certo tornerebbero indietro».
Non è un caso isolato?
GAD LERNER — In realtà le persone che ragionano così, da entrambe le parti, sono molte di più di quanto non appaia. Mitizzare la propria capacità tecnologica e militare da parte di Israele si è rivelato un errore. Prolungare oltre mezzo secolo l’occupazione dei territori palestinesi, una sciagura oltre che un disonore. Netanyahu sarà anche una personalità anacronistica, come dice Della Pergola, ma se è diventato il premier più longevo della storia d’Israele è proprio perché incarna la convinzione, radicata ma sbagliata, secondo cui con i palestinesi non si potrebbe fare la pace: se dai loro un dito, si prendono la mano; se gli concedi un fazzoletto di terra per creare uno Stato, ne faranno un avamposto terroristico. Dunque neghiamo che siano una nazione, il mondo arabo è grande, se ne vadano altrove. Sono qui le radici del fanatismo dell’una e dell’altra parte.
È una logica basata sulla forza.
GAD LERNER — In un’intervista rilasciata prima del 7 ottobre Netanyahu teorizzava che la storia non favorisce i virtuosi e che la superiorità morale non garantisce la sopravvivenza. Col senno di poi, questa visione cinica della storia spiega l’inaccettabile strage di civili e i crimini perpetrati a Gaza per rispondere al massacro e all’umiliazione del 7 ottobre. Io ho la convinzione opposta: se l’ebraismo ha saputo perpetuarsi nei secoli nonostante la dispersione e le persecuzioni, ciò si deve proprio alla capacità di non derogare dai suoi codici morali. Bisogna mantenere un pensiero critico e la visione universalistica della Bibbia, che sono l’esatto contrario dell’esclusivismo e del tribalismo. Contando sulla sola forza, Netanyahu ha condotto Israele in un vicolo cieco.
SERGIO DELLA PERGOLA — Credo che Netanyahu abbia ereditato il pessimismo dal padre, uno storico molto frustrato, studioso dell’ebraismo spagnolo e portoghese all’epoca delle espulsioni di massa da quei Paesi. Certamente l’idea che nella storia conti solo la forza è sbagliata: tutti gli imperi più potenti prima o poi sono scomparsi. Israele non può isolarsi nel culto dell’efficienza militare. Deve coltivare alleanze, trovare appoggi, guardare innanzitutto agli Stati Uniti, che con Joe Biden si sono subito schierati al suo fianco dopo il 7 ottobre.
GAD LERNER — Però in quei giorni il presidente americano ha ammonito gli israeliani: non ripetete gli errori che noi abbiamo compiuto dopo l’11 settembre.
SERGIO DELLA PERGOLA — Aveva ragione. Israele non deve perdere la capacità autocritica, che manca in questo governo, ma non nella società civile. Dai sondaggi risulta che la netta maggioranza dei cittadini ritiene che Netanyahu dovrebbe dimettersi.
Ma sarebbe stato possibile per Israele reagire in un altro modo al 7 ottobre?
SERGIO DELLA PERGOLA — Si rimprovera allo Stato ebraico di non aver risposto in modo proporzionale. Ma la reazione degli anglo-americani alle aggressioni subite nella Seconda guerra mondiale, con i bombardamenti di Dresda e Hiroshima, rispettò forse tale criterio? Bisogna capire se in certe condizioni storiche si possa arrivare a un compromesso con il nemico o lo si debba debellare in modo tale che non possa più risorgere.
GAD LERNER — Il paragone con il nazismo è riferito ai palestinesi?
SERGIO DELLA PERGOLA — Non ai palestinesi, ma ad Hamas, il cui statuto evoca i Protocolli dei savi di Sion, famigerato testo antisemita, ed esorta all’uccisione degli ebrei citando un detto islamico classico. Quel documento non si propone quindi solo di cancellare Israele, ma è rivolto contro gli ebrei in quanto tali.
GAD LERNER — Dai sondaggi svolti nell’insieme del mondo arabo risulta che oltre l’80 per cento degli interpellati nega che Israele abbia diritto all’esistenza. Che conseguenza vogliamo trarne? Apprestarci a un inevitabile scontro di civiltà, come sostiene una certa destra che vede in Israele l’avamposto dell’Occidente?
SERGIO DELLA PERGOLA — Io rifiuto l’idea di Israele come avamposto di chicchessia. Ma esiste un radicalismo islamico che non solo considera lo Stato ebraico provvisorio, ma ambisce a riconquistare tutte le terre che un tempo furono musulmane, Spagna e Sicilia comprese. D’altronde risulta da un altro sondaggio, svolto a Gaza e in Cisgiordania, che circa il 90 per cento della popolazione plaude all’attacco del 7 ottobre, mentre una maggioranza più limitata, più del 60 per cento in Cisgiordania e oltre il 50 a Gaza, desidera una Palestina governata da Hamas. Insomma, gli integralisti islamici godono di un forte sostegno.
Torniamo al punto della proporzionalità.
SERGIO DELLA PERGOLA — Sul piano letterale non è un principio attuabile. Quale ritorsione potrebbe mai essere proporzionale alle efferatezze compiute da Hamas? Si tratta invece di porre fine alla filiera politico-militare che ha prodotto quelle atrocità e che ha dimostrato anche ricchezza ed efficienza: le fortificazioni sotterranee di Gaza sono un capolavoro costato miliardi di dollari, che avrebbero potuto essere usati per alleviare i disagi della popolazione palestinese.
GAD LERNER — Mentre Hamas costruiva i tunnel, i governanti israeliani sapevano che lo stava facendo.
SERGIO DELLA PERGOLA — Io non voglio certo sminuire le responsabilità di Netanyahu. Ma non ha fallito solo lui: dovrebbero andare a casa tutti i ministri, con i vertici militari e dei servizi segreti. O sapevano, e sono degli irresponsabili. O non sapevano, e sono degli incapaci. Ma non accetto che si accusino gli ebrei di essere vendicativi e crudeli. L’obiettivo deve essere evitare che il 7 ottobre si ripeta: purtroppo questo causa dolorosi danni collaterali ai civili, anche se Israele ha cercato di limitarli. Ma ci sono postazioni di Hamas sui tetti delle case e delle scuole, si trovano armi nei cassetti e nei freezer degli appartamenti. In una condizione del genere, mi pare che l’esercito israeliano si stia comportando meglio di quanto facciano i russi in Ucraina o facessero gli americani in Vietnam. E comunque mai credere alle statistiche sulle vittime fabbricate da Hamas: le ho esaminate come demografo e non stanno in piedi. Le perdite civili — bambini, donne, vecchi — ci sono e addolorano. Ma resta la necessità di sgominare un’organizzazione terroristica che è ancora in piedi.
GAD LERNER — Ma allora l’operazione a Gaza dovrebbe prolungarsi e intensificarsi, quindi produrre ancora più vittime civili?
SERGIO DELLA PERGOLA — Non è necessariamente così. Bisogna ragionare a mente fredda e definire una strategia efficace. Oggi Israele è di fronte a un dilemma: liberare gli ostaggi e distruggere Hamas sono obiettivi incompatibili, perché ottenere il secondo significa compromettere il primo. Io sarei per sospendere le operazioni militari in cambio del rilascio di tutti i prigionieri.
GAD LERNER — Se questa è la conclusione, che condivido, mi chiedo se per arrivarci si dovessero attendere tanti mesi e tanti orrori, che hanno macchiato la reputazione di Israele e ne hanno provocato l’isolamento internazionale. Oggi lo Stato ebraico rischia di essere visto dai suoi stessi alleati come un intralcio, per il modo in cui è caduto nella trappola tesa da Hamas, che prima ha compiuto il massacro del 7 ottobre, poi ha esortato la popolazione di Gaza a sottoporsi al sacrificio. Nella prima Intifada, dal 1987 al 1993, morirono in sei anni circa mille palestinesi: bastarono allora per arrivare all’apertura verso Arafat e agli accordi di Oslo. Adesso i morti sono decine di migliaia in pochi mesi. E la solidarietà verso Israele è rapidamente evaporata.
Ma quale alternativa c’era dopo il 7 ottobre?
GAD LERNER — Israele avrebbe potuto e dovuto rispondere diversamente all’attacco terroristico, invece di abbandonarsi al riflesso pavloviano della rappresaglia massiccia che non basta a estirpare Hamas. Si poteva aprire una trattativa per la liberazione degli ostaggi coinvolgendo i Paesi arabi, si potevano intraprendere azioni mirate, evitando di ridurre Gaza in macerie.
Però gli accordi di Abramo reggono.
GAD LERNER — Lo scrittore israeliano David Grossman li ha giustamente definiti «la pace dei ricchi». Era miope pensare che un’intesa tra lo Stato ebraico e i potentati arabi del Golfo bastasse da coperchio a comprimere la pentola ribollente della sofferenza provata da milioni di diseredati. Così si prolunga la guerra, mentre sarebbe necessario riconoscere da subito il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi. La soluzione «due popoli, due Stati» sarà molto complicata da realizzare, necessiterà di particolari soluzioni territoriali e giuridiche. Ma è più realistica della Palestina senza sionisti predicata da Hamas e della Grande Israele perseguita dai coloni sionisti religiosi. Altrimenti torniamo a ripetere il celebre episodio biblico che ebbe per teatro proprio Gaza: dove Sansone si suicidò trascinando con sé nella morte tutti i filistei, cioè gli antenati dei palestinesi.
SERGIO DELLA PERGOLA — Io sarei d’accordo se ci fosse una controparte affidabile. Tempo fa con alcuni intellettuali israeliani e palestinesi ci chiudemmo in una stanza per due giorni e preparammo un trattato di pace: un documento nel quale ponevamo le premesse per la conclusione del conflitto. Un accordo quindi è possibile. Solo che tra i palestinesi le voci ragionevoli sono poche ed emarginate: le persone che avevo coinvolto sono finite tutte in disgrazia.
Prevale l’estremismo?
SERGIO DELLA PERGOLA — Soprattutto il mondo palestinese è profondamente diviso. In Cisgiordania c’è l’anziano e declinante presidente Abu Mazen, alla cui morte si rischia un bagno di sangue per la successione. È molto popolare Marwan Barghouti, che però sconta diversi ergastoli in un carcere israeliano. Gaza a sua volta è una realtà a parte, molto distante dalla Cisgiordania su diversi piani. Io a questo punto vedrei con favore una soluzione a tre Stati, che faccia di Gaza e della Cisgiordania due entità sovrane separate con Israele in mezzo. Ma certo occorre che all’accordo partecipino le potenze regionali, in primo luogo l’Arabia Saudita, e naturalmente gli Stati Uniti. L’Europa potrebbe giocare un ruolo se esistesse, ma non è così. Premessa necessaria è un radicale mutamento politico in Israele, con la definitiva uscita di scena di Netanyahu e l’avvento di una leadership che affronti i problemi con spirito realistico.
Concludiamo sul problema dell’antisemitismo.
GAD LERNER — Nel libro Della Pergola segnala che la memoria della Shoah è diventata di gran lunga la prima motivazione con cui gli ebrei definiscono oggi la propria identità. Non era così nella generazione precedente. I miei genitori della Shoah in casa non parlavano, sebbene la famiglia ne fosse stata terribilmente segnata. Ho dovuto scoprire da solo, da adulto, quello che era successo e non mi avevano raccontato. Dunque mi è ben presente la propensione a mettere insieme la Shoah e le vicende di Israele. Ma trovo controproducente, oltre che ingiusto, collegare all’antisemitismo novecentesco, o addirittura a un antigiudaismo eterno, l’ostilità che Israele si sta attirando. Certo è una sciocchezza dire che l’antisemitismo sia causato da Netanyahu, visto che esiste da sempre, ma il premier israeliano sembra fare di tutto per alimentarlo. È indigesto, lo so, ma dovremmo avere il coraggio di dire che oggi l’antisemitismo non è il problema principale. Non possiamo occuparci solo di noi stessi. Giusto tenere alta la vigilanza contro l’odio antiebraico, perpetuare la memoria della Shoah. Ma la nostra sfida è trovare una collocazione diversa nei conflitti contemporanei, riproporre un equilibrio, un senso di giustizia, a partire dal Medio Oriente, nel filone ebraico della tolleranza di cui parlava Primo Levi.
SERGIO DELLA PERGOLA — La memoria della Shoah è stata a lungo repressa, per risorgere poi intorno agli anni Settanta. Ed è oggi molto presente anche tra i giovani. Per gli ebrei la questione dello sterminio e quella d’Israele sono strettamente collegate: ne tocchi una e si risveglia l’altra, come per un riflesso condizionato.
GAD LERNER — È successo anche il 7 ottobre.
SERGIO DELLA PERGOLA — Nei momenti di crisi si arriva all’esasperazione. E devo dire che la crisi attuale ha suscitato un’ondata d’intolleranza verso gli ebrei. Si dicono e scrivono impunemente cose che anni fa sarebbero state impensabili: c’è stato un enorme scadimento del discorso pubblico.
L’ostilità verso gli ebrei la preoccupa?
SERGIO DELLA PERGOLA — L’antisemitismo ha tre componenti. Innanzitutto si rivolge contro l’ebreo come persona, ritenuto un elemento inquinante della società. In secondo luogo tende a sminuire la Shoah, accusando gli ebrei di averla gonfiata per usarla a proprio vantaggio. Infine nega la legittimità dello Stato d’Israele, sostenendo che gli ebrei non sono una nazione e non hanno diritto alla sovranità politica. Questi tre elementi sono indivisibili, non si possono separare tra loro, come pure si tenta di fare. Del resto basta vedere le reazioni diverse che suscitano i comportamenti di Israele a Gaza rispetto a quelli della Russia in Ucraina. Ricordate che ci siano state manifestazioni nelle università occidentali contro Vladimir Putin? Il metro di giudizio non è lo stesso e questo solleva grossi interrogativi.