Israele e Iran continuano a far finta di fare una guerra. Tu hai colpito una base militare a me e io colpisco una base militare a te. Io ho neutralizzato i droni a te, tu hai neutralizzato i droni a me. Se la faccenda non fosse tremendamente seria sarebbe persino ridicola. Io ho avvertito dell’attacco te e tu hai fatto altrettanto con me. Fammi male ma poco poco, io reagisco ma poco poco.

Il problema è che a forza di fare finta si può finire per non calcolare l’imponderabile, l’errore che potrebbe provocare un’escalation dagli esiti imprevedibili. E contro quella che è, di tutta evidenza, la volontà dei belligeranti. La gara a minimizzare l’offensiva notturna sui cieli dell’Iran ha assunto dei toni addirittura grotteschi. Con i portavoce degli ayatollah che minimizzavano i danni o addirittura che mettevano in discussione la paternità dello stato ebraico, alludendo alla necessità di «indagare» per arrivare ai responsabili. E comunque concludendo che non ci sarà una reazione a meno che…

Sull’altro fronte nessuna rivendicazione israeliana, e questa è una consuetudine lunga, non è mai stato fatto né per le incursioni sulla Siria né per gli omicidi mirati dei principali attori del progetto nucleare di Teheran. Il solito Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza nazionale e leader della destra razzista, ha voluto bollare il raid come «moscio», lasciando intendere che avrebbe preferito un’azione ben più dura e mettendo in luce, ancora una volta, le difficoltà del premier Bibi Netanyahu, stretto com’è tra l’ala più oltranzista della sua maggioranza di governo e i partner internazionali, Stati Uniti in primis, che lo invitano ogni giorno alla moderazione. Partner che hanno tirato un sospiro di sollievo per la “ragionevolezza” dell’operazione.

IL LINGUAGGIO DELLA GUERRA

È indubbio, tuttavia, che il linguaggio della guerra continua a dominare il vocabolario pubblico del pianeta, fino a provocare un’assuefazione dopo oltre due anni di conflitto in Ucraina e sei mesi in Medio Oriente. È diventato normale contemplare nell’ambito del possibile ciò che prima era un tabù, come ad esempio proprio un confronto diretto tra Israele e Iran, i due pesi massimi dell’area.

È diventato normale colpire una sede diplomatica, accettare come ineluttabile una reazione e una controreazione, secondo il virile e maschile principio per cui ci debbono essere per forza onte che vanno lavate, prove muscolari che vanno esibite persino controvoglia. È l’accettazione di questa logica che sta portando il mondo sull’orlo della catastrofe.

Dobbiamo sperare nell’“intelligenza” di bombe che in passato non hanno mai dimostrato di essere tali. Proviamo a immaginare come sarebbe il mondo oggi se gli ordigni caduti attorno al sito nucleare di Esfahan avessero prodotto l’irreparabile. Qui si continua a scherzare col fuoco avendo varcato troppi Rubiconi, nella prassi e con le parole.

Vari leader internazionali lodano il «senso di responsabilità» di Israele come domenica scorsa avevano tirato un sospiro di sollievo per il comportamento degli ayatollah che avevano sì sferrato l’offensiva, ma premurandosi di avvertire preventivamente e lanciando droni che viaggiavano a 200 all’ora e che hanno impiegato cinque ore a raggiungere lo stato ebraico. Fatta la tara dei tempi, un’andatura da re Magi con il cammello che ha permesso alla coalizione creata attorno a Israele di esibirsi in una sorta di tiro al piattello con felici esiti.

Proprio questo dovrebbe allarmarci. I giochi di guerra possono sfuggire di mano, sono la famosa pistola di Čechov che, se compare in una rappresentazione teatrale, prima o poi sparerà. Ad aggravare il quadro nel nostro caso è che si tratta di ben altro, non di semplici pistole. Israele ha la bomba atomica, Teheran è sul punto di costruirsela, stando ai rapporti più o meno segreti di varie intelligence. Non si è mai vista una de-escalation fatta di continue provocazioni.