Una figlia e una madre. Due attrici. Due cantanti. Due vite raccontate da entrambe in una lunga conversazione intima, a partire dai toni delle loro voci e dalla flagranza delle immagini date da uno sguardo luminoso che crea un «qualcosa nell’aria» da captare nei vari ambienti in cui Charlotte Gainsbourg e Jane Birkin si «installano» per il loro personale viaggio nella memoria. Accade in Jane by Charlotte (in originale Jane par Charlotte, da ieri in sala). Un capolavoro non classificabile in nessun genere se non quello dell’amore per la vita e per il cinema che, qui in stato di grazia, sa restituirla nella sua moltitudine di sfumature, emozioni, cortocircuiti, di cose dette oppure rimaste imprigionate per troppo lungo tempo.
Jane by Charlotte (esordio da regista di Charlotte Gainsbourg) di-segna così il riallacciarsi di un rapporto che si era interrotto e che prende concretezza in più spazi (Parigi e la campagna francese, New York, Tokyo), definendosi come un on the road dell’anima e dei corpi. Ma: «Come filmare? Come fare il film?», si domanda all’inizio Gainsbourg e lo chiede alla madre. Quel che ne esce è un lavoro di ri-specchiamenti che si evidenzia scena dopo scena, anzi, scena dentro scena, in un gioco privato e teorico di sovrimpressioni che lascia senza respiro, colpisce il cuore e gli occhi.
Fin da subito siamo immersi, dolcemente scaraventati, in questa doppia dimensione personale e pubblica. Jane Birkin si sta esibendo in un concerto in Giappone e da dietro le quinte si è accompagnati dalla macchina da presa a scoprirla sul palco.
COME in una soggettiva che ci vuole rendere partecipi della prossimità, del corpo a corpo che sta iniziando a prendere forma tra le due donne, fatto di parole e di sguardi. Le loro parole portano a «vedere» tempi passati, mentre alcuni materiali di famiglia (anche proiettati sulla parete di una stanza e guardati, oppure no, da madre e figlia che si ri-flettono in quelle immagini) aprono ulteriori spazi e «finestre». Si crea uno spazio-tempo avvolgente e l’intimità si espande nelle fotografie che Gainsbourg scatta a Birkin, ovvero quadri che compongono ancora altri punti di cristallizzazione e di fuga.
Birkin «espone» il suo corpo invecchiato, senza trucco. A New York, in una delle scene più commoventi (ma tutto il film lo è, e l’ultima scena sulla spiaggia – con Birkin che ascolta con un auricolare quello che la figlia ha registrato, «unico» modo per dirglielo, per lei, prima di raggiungerla e abbracciarla, sempre con l’inseparabile macchina da presa Super8 – è uno dei più bei finali visti in questi anni), parlano sul terrazzo di un grattacielo, come sospese nel vuoto. A Parigi visitano la casa (che diventerà un museo) dove Charlotte visse molti anni con la madre e il padre Serge, una casa pregna di oggetti dove vita privata e lavorativa si confondono e dove Jane non entrava da tanto tempo.
LA CASA in campagna è un altro luogo di dialogo e incontri, nei quali confluiscono le generazioni più giovani della famiglia e i diversi modi delle due donne di relazionarsi con i figli e le figlie, avvicinarsi a loro, alle loro età. Ricorrono poi, numerosi, i ricordi di Birkin del primo marito, il compositore John Barry, e della loro figlia Kate, suicidatasi.
Il cinema fatto da Jane Birkin e Charlotte Gainsbourg con tanta intensità entra infine poco o nulla in quest’opera concentrata proprio sul loro ri-trovarsi e parlarsi, cercarsi con gli sguardi e attraverso l’occhio della macchina da presa e di quella fotografica. Mentre le immagini in Super8 girate da Gainsbourg e che entrano nel film creano altri battiti e palpiti luminosi nella narrazione di un doppio privato che si fa splendentemente pubblico.