La pioniera del contemporaneo in mostra al Luma di Arles In sessant’anni di carriera ha rotto ogni tabù e portato nelle sue opere temi da sempre esclusi come il parto e la morte
ARLES
La prima opera che si incontra nella retrospettiva di Judith Chicago Herstory al Luma di Arles (in collaborazione con il New Museum di New York e a cura di Massimiliano Gioni, fino al 29 settembre) è una grande venere primitiva in bronzo, la scultura stilizzata di una dea che incarna l’immagine universale della donna.
Un archetipo del femminile che per Chicago rappresenta l’icona senza tempo di tutta la sua ricerca e pratica dagli anni Sessanta. Lei stessa, classe 1939, è un’icona dell’arte contemporanea e di un attivismo femminista che negli anni Settanta vide un manifesto fondativo nell’installazione Dinner party ,banchetto che celebrava le donne nella storia, e nel progetto comunitario “Womenhouse”, parte del primo Feminist Art Program all’Università di Fresno in California. L’arte è stata il campo della sua battaglia contro la discriminazione verso le artiste, e verso le donne, con l’affermazione di un canone diverso da quello maschile, una prospettiva femminile sul mondo, sin dal suo debutto nel Minimalismo.
La incontriamo ad Arles, dove nel parco del Luma ha anche realizzato una nuova, imponente performance della storica serieSmoke sculptures .
Questa mostra è la sua prima retrospettiva in Europa, che lei ha pensato anche come un omaggio alla Provenza e agli Impressionisti.
«Scoprii gli Impressionisti quando ero adolescente, al Chicago Art Institute dove studiavo, rimasi così colpita dalle ninfee e dai pagliai di Monet, e poi da Georges Seurat e Toulouse-Lautrec. Loro mi fecero prendere la decisione di diventare artista».
La visione d’insieme dei suoi sessant’anni di lavoro rende chiaro come i colori brillanti e dinamici, insieme alla luce, ne siano elementi costitutivi.
«È verissimo, ricordo che i miei colleghi del Minimalismo consideravano inaccettabile il mio uso del colore, e già al Chicago Art Institute il mio insegnante criticava la mia palette troppo “femminile”.
Ho sempre condotto molti studi sul colore, volevo usarlo in modo emozionale e psicologico. Mi resi conto di come la natura dei colori cambi la percezione delle forme stesse, che si tratti di disegni o dei miei interventi di fumo nell’ambiente, dove i colori fluiscono nell’aria. Per me è come se dipingessi il paesaggio, lo trasformo in un’opera viva».
Il tema della nascita nella storia dell’arte occidentale è un’assenza, un tabù. Lei negli anni Ottanta gli ha dedicato il ciclo di “Birth Project”, decine di immagini che combinano pittura e ricamo.
«Quando nelle mie ricerche scoprii quanto le donne sono sempre state cancellate dalla storia dell’arte, decisi che avrei voluto fare qualcosa, divenni ossessionata da ciò che era stato lasciato fuori! Le artiste, ma anche alcuni temi legatial loro genere, al loro corpo. La nascita prima di tutto, atto fondamentale per la specie umana, dove c’è dolore, violenza e gioia. Ci ho dedicato cinque anni. A lungo me ne sono fregata del mondo e del mercato dell’arte, mi interessava solo lavorare e studiare i vuoti della storia dell’arte occidentale. Mai nessuna nascita, incontravo solo tante madonne! E mi sono domandata perché questo tabù riguardi anche momenti storici con una presenza maggiore di artiste.
Ho capito che è a causa della vergogna che le donne provano per il loro corpo e per ciò che esso fa».
La verità organica del corpo è presente anche nel ciclo dedicato alla morte, “The end: a meditation on death and extinction”.
«Non so come sia in Europa, ma negli Stati Uniti il tema della morte è avvolto nella menzogna così come quello della nascita. La religione ci ha sempre raccontato che c’è un grande dio uomo, che muove un dito e crea la vita, l’umanità. La morte non viene vissuta come parte dell’esistenza. Il fatto che oggi la maggior parte delle persone muoia in ospedale e non a casa è terribile, la gente pensa che contro la morte bisognacombattere con tutti i mezzi e fino alla fine, invece di accompagnare assecondando il corso naturale. Per questo la serie The end è composta soprattutto da disegni che vivono su un fondo nero, piccoli vetri dove la pittura si stratifica attraverso 7 cotture nel forno. La serie The extinction, invece, è stata la più complessa della mia vita: per dieci anni, nei Duemila, ho cercato di capire cosa potevo fare per le altre creature sul pianeta, per rendere visibile alle persone che noi siamo responsabili per la loro morte ed estinzione, per il dolore inflitto con lo sfruttamento dei loro corpi e con l’inquinamento dell’ambiente. Mal’estinzione è ora qualcosa che riguarda anche la nostra specie, un futuro condiviso».
La sua linea negli anni ha preso varie forme, geometriche e figurative, ma si è fatta anche parola, infatti nelle sue opere parole e pensieri sono spesso presenti e lei ha anche scritto molti libri, il più recente è l’autobiografia “The Flowering”.
«All’inizio per lungo tempo ho studiato come poter unire la scrittura alla mia pittura nella serieThe Great Ladies, che fu prima diDinner party. Volevo creare ritratti astratti delle donne che incontravo nelle mie ricerche ma anche che fosse chiaro chi fossero, così decisi che avrei scritto attorno al dipinto.
Poi, disegnare e scrivere divennero sempre più pratiche connesse e ora scrivo e dipingo come un unico atto. Recentemente, in occasione di una mostra ancora in corso alla Serpentine di Londra, è stato pubblicato Revelations, un manoscritto che mai mi sarei aspettata potesse diventare un libro, un’emozione, l’ho scritto lungo cinquant’anni e contiene il mio pensiero e la visione che sottende al mio lavoro. È tutto lì, ora non ho più nulla da scrivere».
Ma viene difficile crederlo.