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Si sarebbe potuto ricordare questa storia terrificante e patetica solo come la rievocazione di un grande incubo.
Quella parata, quei fasci, quel corteo di squadristi meno numerosi di quanto non dica la leggenda aurea del fascismo, quelle bande di reietti che vediamo nel film di Dino Risi con Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, quel quadrumvirato patetico e sconvolto che circondava Mussolini e che per poco non fu fatto arretrare da un temporale, sembrava appartenere al passato.
E per gli estimatori dell’Italia, per chi, come me, vede nel Paese di Dante, Tintoretto e Sciascia una seconda patria, il personaggio stesso di Mussolini sembrava definitivamente congelato nel ritratto grottesco lasciato da Gadda nel suo Eros e Priapo, da Malaparte in Muss. Il grande imbecille o da Antonio Scurati nelle prime pagine del suo M, dove vediamo l’“uomo della provvidenza” alle prese con diarrea, vomito e spasmi ulcerosi.
E invece…
Non avevamo fatto i conti con le elezioni, che il 25 settembre, a poche settimane dal sinistro anniversario, rischiano di portare al potere una coalizione chiaramente nostalgica di questa scena nera.
Perché Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, a sua volta alleata con i partiti di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, ha un bel dire il contrario. Può anche giurare di essere cambiata, proclamare la sua “dediabolizzazione” e che è passato il tempo in cui diceva che Benito Mussolini era un “buon politico”, senza equivalenti nella vita politica nazionale degli “ultimi cinquant’anni”.
Ci sono almeno due cose che dovrebbero allarmare tutti i democratici italiani ed europei, sia di destra che di sinistra.
In primo luogo, il suo stile. L’emblema del suo partito, la fiamma verde, bianca e rossa cara ai simpatizzanti del Msi, il Movimento Sociale Italiano che fu, nel secondo dopoguerra, l’erede diretto del bandito partito fascista. Il tonante “La storia ci darà ragione” che ha lanciato a Piazza Vittorio, a Roma, dopo che Mario Draghi era stato messo in minoranza, e che, come tutti hanno capito, riprendeva il famoso “La storia mi darà ragione” pronunciato da Mussolini, pochi giorni prima di morire, nella sua ultima intervista. La sua politica migratoria. Il lapsus, quasi incredibile, che le ha fatto allestire il quartier generale della sua campagna elettorale nella stessa via della Scrofa dove il Msi aveva stabilito la sua sede nel 1946. Per non parlare di uno dei suoi alleati, Enrico Michetti, che ha accusato la “lobby ebraica” di “decidere le sorti del pianeta” e ha dichiarato, durante la campagna per la carica di sindaco di Roma, che il saluto fascista era, in tempi di Covid, più igienico della stretta di mano.
Ma non meno preoccupante è il tipo di rapporto che un governo da lei presieduto non mancherebbe di instaurare con il leader mondiale, Vladimir Putin, che con il suo illiberalismo, il suo disprezzo per la democrazia e la legge, il suo culto della forza e del capo, e la sua violenza, assomiglia più chiaramente ai fondatori del fascismo. Anche in questo caso, Giorgia Meloni ha un bel dire il contrario. Può ripetere quanto vuole che l’Italia, con lei, non metterebbe in discussione il principio delle sanzioni contro Mosca, ma ha un alleato, Silvio Berlusconi, la cui leggendaria amicizia con Putin gli ha fatto dire, in un’intervista alla Komsomolskaya Pravda,che è “il leader che ci vuole” per la Russia perché è “un uomo straordinario, semplice e modesto, con grandi qualità umane”. E ne ha un altro, Matteo Salvini, i cui legami con il potere russo non sono un segreto: la stampa italiana non ha appena rivelato come il suo entourage, mentre lui stesso pianificava un viaggio discreto a Mosca, stesse negoziando con l’ambasciata russa a Roma per far saltare la coalizione che permetteva a Mario Draghi di governare?
Non conosco Giorgia Meloni.
Ma mi è capitato di incrociare Silvio Berlusconi.
Quanto a Matteo Salvini, abbiamo avuto un dibattito due anni fa su un canale televisivo italiano. Mi aspettavo Matamore, ho trovato Scaramouche.
Mi avevano detto che era un condottiero, ma era un misto tra il capo di un casinò di un film di Scorsese e un membro di secondo piano del clan dei corleonesi.
Ma, soprattutto, avevo davanti il tipico putiniano europeo che già lasciava che i suoi collaboratori racimolassero rubli e petrodollari a Mosca, che negoziava il futuro del popolo italiano in accordi dietro le quinte appannati dalla vodka e che, tra tutti i travestimenti di cui andava matto (un giorno pompiere, un altro poliziotto, il giorno dopo doganiere), continuava a preferire le magliette con l’effigie del padrone del Cremlino.
Gli italiani meritano di meglio.
L’Europa, di cui l’Italia è la culla, e più che mai con il Trattato del Quirinale, che ne è un pilastro vivente, sarebbe indebolita dalla vittoria di questa gente.
Che la patria di De Gasperi e Pasolini sbarri loro la strada.
Possa ritrovare quella miscela di saggezza e coraggio che i suoi antichi padri chiamavano virtù.
Da questo risorgimento repubblicano dipende il futuro del continente.