«Mi ha spinto la curiosità, volevo provare a cogliere la prospettiva di questi ragazzi e mostrarla al mondo». Così il regista Kiwi Chow racconta la genesi del suo ultimo film, Revolution of our times, da oggi nelle sale italiane. Un documentario che si addentra nelle manifestazioni che hanno scosso Hong Kong da marzo a luglio del 2019, contro un governo percepito come sempre meno preoccupato degli interessi della popolazione e prono a Pechino. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la proposta di legge sull’estradizione, che permette di mandare in Cina gli hongkongesi arrestati. Al di là di un ingenuo e fuorviante «american dream» che emerge talvolta dalle bandiere a stelle e strisce sventolate, quella di Hong Kong è stata una battaglia per l’autodeterminazione, condotta con coraggio da giovanissimi a cui gran parte della popolazione ha fornito sostegno. Nelle immagini «calde» di Chow, che abbiamo raggiunto in una videochiamata, colpisce come si generino spontaneamente i saperi e le tecniche della rivolta – dove la tecnologia ormai non può che avere un ruolo centrale, nonostante la battaglia sia sempre dei corpi – rimandando a quella forza anonima della massa teorizzata da Elias Canetti.

Revolution of our times è stato presentato lo scorso anno a Cannes e arriva in Italia – informazioni aggiornate si possono trovare sul canale telegram @hongkongrevolution – dopo essere stato bandito in Cina. Per ragioni di sicurezza, molti dei crediti rimangono anonimi, si parla infatti di una produzione e distribuzione degli «hongkongesi».

Approfondiresti le ragioni di questo movimento?

Siamo un popolo istruito ed eravamo molto fieri del nostro sistema legislativo. Tuttavia negli ultimi anni i politici lo stanno distruggendo, ne siamo consapevoli e per questo si è sviluppata una grande resistenza. Il governo si è avvicinato sempre di più alla Cina per ragioni economiche, sono cresciuti gli investimenti da Pechino e con loro i legami.

Come hai lavorato per trovare persone che volessero parlare, nonostante i rischi?

Avevo già realizzato un film molto politico intitolato Ten Years (2015), i cinema non volevano mostrarlo perché già avevano paura del governo. Ero quindi abbastanza conosciuto per questo, e ciò ha generato fiducia nei miei confronti da parte dei giovani coinvolti nelle proteste.

Com’è stato filmare durante le manifestazioni?

Ero piuttosto preoccupato considerata la forte repressione, mi sono poi capitati alcuni incidenti, ad esempio una volta la polizia ha sparato proiettili di gomma verso di me, fortunatamente avevo il casco e non sono rimasto ferito. L’altra cosa che mi preoccupava era proteggere l’identità dei manifestanti visto che li ho seguiti anche nei momenti in cui avevano il volto scoperto. Mi sono sempre premurato che le immagini non finissero nelle mani della polizia, quando sono riuscito a portar via tutto il girato fuori da Hong Kong mi sono sentito finalmente sollevato.

Durante le proteste sono nate delle reti di supporto sorprendenti come quella degli autisti, pronti a recuperare i manifestanti per metterli in salvo.

Anch’io sono rimasto molto impressionato, i ragazzi e le ragazze che gestivano questa rete hanno iniziato veramente da zero applicando le proprie conoscenze in materia tecnologica e utilizzando in particolare Telegram perché considerato molto più sicuro per lo scambio di informazioni.

Il lungo assedio del Politecnico sembra essere stato un punto di svolta, una sorta di utopia finita male. Racconteresti quelle giornate?

Sono stato lì per tre giorni, ho vissuto tante emozioni. All’inizio la tattica di questi ragazzi era quella che viene chiamata «Be Water», quindi non volevano compattarsi in un percorso specifico ma bloccare il traffico in più punti intorno all’università. Tuttavia la polizia ha interdetto tutte le vie di fuga creando una situazione molto difficile, anche perché i ragazzi erano giovanissimi, spesso venivano dal liceo o addirittura dalle scuole medie. Nel corso dei giorni sono rimasti con poco cibo e acqua, ed è iniziato ad essere molto faticoso per loro anche psicologicamente. Definirei la tattica che la polizia ha applicato veramente poco umana. È stato sicuramente un punto di svolta, dopo non ci sono più stati grandi movimenti.

La pandemia sembra poi aver chiuso definitivamente il discorso.

Ci sono stati tre motivi: la pandemia, l’approvazione della National security law – una legge per la quale gli oppositori del governo possono essere mandati in Cina e rischiare il carcere a vita – e infine la stanchezza, i ragazzi sono arrivati al loro limite.

Qual è la situazione attuale?

Purtroppo molte persone hanno perso la speranza e molti sono andati via da Hong Kong per la propria sicurezza. C’è molta paura.

Quanto hai rischiato realizzando questo film?

Ho consultato alcuni avvocati ma non ho seguito i loro consigli, non ho voluto tagliare determinate scene. Diverse persone sono allertate nel caso dovesse succedermi qualcosa, e alcune di queste hanno delle copie del film all’estero per cui potrà essere mostrato qualsiasi cosa accada.