«Perché penso a lui così tanto e con così grande antipatia?» annota Klaus Mann nel suo diario la vigilia di Natale del 1931. Alludeva a Gustaf Gründgens, attore e regista verso il quale provava un’avversione prima di tutto personale. Aveva tentato di liberarsene ritraendolo in uno dei personaggi, il ballerino carrierista Gregor Gregori, del romanzo Punto di incontro all’infinito. Invece continua a non poter fare a meno di dedicargli «molti pensieri adirati», come scrive ancora nel diario. Aveva ammirato il suo straordinario talento vedendolo recitare nella messinscena del suo primo dramma, Anja e Esther, nell’ottobre del 1925, ai Kammerspiele di Amburgo, insieme a Pamela Wedekind, a lui stesso e alla sorella Erika, alla quale poi Gründgens fu legato in un breve e improbabile matrimonio. Dopo l’avvento del nazismo, l’avversione si fece ancora più profonda: Gründgens restò in Germania e fece una fulminante carriera grazie alla benevolenza del potentissimo Hermann Göring. Mann si chiese con sgomento come fosse possibile che qualcuno che aveva condiviso con lui piaceri e malesseri, progetti e divertimenti, potesse ora fare le stesse cose «con gli assassini» che governavano la Germania.

È soprattutto per venire a capo di questo raccapriccio che nel 1936 modella su Gründgens la figura di Hendrik Höfgen, il protagonista di Mephisto Romanzo di una carriera,che ora l’editore Castelvecchi pubblica in una nuova, elegante traduzione di Massimo Ferraris (pp. 320, € 18,00). È certamente una delle opere più significative della cosiddetta Exilliteratur, la letteratura prodotta da autori costretti all’esilio per sottrarsi alla persecuzione nazista, di cui Klaus Mann fu uno dei rappresentanti più attivi e esemplari. Fino ad allora aveva percepito sé stesso come il rappresentante di una generazione perduta, ma capace di lasciarsi alle spalle preconcetti morali e ideologici per godere e soffrire di un’esistenza vissuta come essenzialmente tragica e giustificabile soltanto in quanto fenomeno estetico. L’avvento al potere del nazismo lo spinse a congelare questa disposizione estetizzante e decadente per fare della lotta politica il fulcro della sua esistenza. Ma il suo turbinoso impegno antinazista non riuscì a esorcizzare a lungo i malesseri esistenziali che lo avrebbero portato a togliersi la vita nel maggio del 1949.

Un mese prima l’editore Langenscheidt di Monaco aveva declinato la sua proposta di ripubblicare Mephisto perché «il signor Gründgens ricopre una posizione molto importante». Anche nella Germania del dopoguerra, infatti, Gründgens continuava a essere un uomo potente, protetto dal suo successo. Dopo essere stato recluso dai sovietici per un anno, riprese subito a recitare, poi a dirigere teatri, a ottenere cariche e onoreficenze. Mephisto uscirà solo nel 1956, nella Germania orientale. Nella Repubblica federale, invece, la sua pubblicazione venne impedita da una sentenza della Corte costituzionale e dovette aspettare il 1981: una volta pubblicato, il romanzo divenne subito un best seller, anche grazie al grande successo del film di István Szabó che lo traspose per lo schermo.

Oggi Mephisto si legge come il ritratto satirico e allarmato di un’epoca terribile e come uno studio narrativo sulla personalità narcisistica e sulla sua strutturale collusività con ogni forma di potere fondata sul dominio dell’essere umano sull’essere umano.

Höfgen/Gründgens sa farsi osannare prima dai giornali di sinistra e poi da quelli nazisti perché è capace di aderire a ogni posizione ideologica senza mai identificarsi con nessuna: «Mente sempre e non mente mai. La sua falsità è la sua autenticità», dice uno dei personaggi del romanzo. «Crede a tutto e non crede a niente. È un attore». Astuto e braccato dalla propria smania di piacere, che lo domina con un’energia eccezionale, e lo consuma «come un dolore fisico», non è semplicemente uno dei milioni di conniventi che hanno reso possibile il terrore nazista, ma un professionista della finzione che, in quanto «specialista in mascalzoni eleganti, assassini in frac» e superbo interprete del Mefistofele goethiano, fornisce ai carnefici la scintillante giustificazione estetica del proprio feroce agire politico. Talvolta è preso da qualche scrupolo morale, e allora ribadisce a sé stesso di essere soltanto un attore, che si muove nel regno autonomo e in fondo impotente dell’arte.

Ma quando viene a sapere dell’incendio del parlamento tedesco è affascinato dall’«astuzia scellerata e allo stesso tempo infantile dei nazisti», che «si era esercitata e accesa proprio vedendo quei film e quelle opere teatrali in cui Hendrik era solito interpretare i ruoli principali». Forse il vero tema di Mephisto è il potere funesto che può avere la finzione. Höfgen la usa come un rifugio dove sentirsi al sicuro da ogni compromissione e vivere i desideri più perversi senza timore di sanzioni, ma deve rendersi conto che il nazismo l’ha fatta rovinosamente straripare nella realtà: «Com’è forte il male!» pensa. «Si può permettere di tutto e venirsene fuori impunito! Nel mondo succede davvero come nei film e nelle opere teatrali di cui sono stato così spesso l’eroe».