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9 Febbraio 2025
Roberto Longhi un ritratto somigliante
9 Febbraio 2025
di Annachiara Sacchi
Estetica inquieta, in movimento. Come quegli anni vertiginosi, tra 1871 e 1914, progresso e innovazioni: Parigi, il centro di tutto, percorsa da tram e metropolitane, città da due milioni di abitanti nel 1880 (per capirsi, Roma ne faceva poco più di duecentomila), che innova e sperimenta, che si illumina dopo l’umiliazione ricevuta dalla Prussia e l’esperienza, terminata nel sangue, della Comune. Un gruppo di artisti, italiani soprattutto, diventa cantore di questa età dell’oro, la Belle Époque, ispirata a un modello di società borghese, liberale e laica, curiosa, aperta alle scoperte scientifiche, alla mondanità che diventa accessibile a molti (non a tutti), laboratorio creativo in cui prendono corpo tendenze diverse. Ci sono gli Impressionisti, certo; poi i primi Cubisti, i Simbolisti. Ma ci sono anche i ritrattisti di questa umanità in movimento, affamata di vita. Oggi, un secolo e mezzo dopo, una serie di mostre, in Italia e all’estero, torna a raccontare questi grandi artisti, a valorizzarli, a metterli in primo piano. A ricordare — e rimpiangere, vagheggiare — la Belle Époque, sogno nostalgico di un benessere irripetibile che diventa rifugio, consolazione, conforto dall’incertezza del presente.
Vedute di strade, piazze attraversate da pedoni e carrozze, la borghesia dei teatri e il popolo degli ambulanti, i caffè all’aperto, bastoni, guanti, ombrellini, botteghe, interni dalle tappezzerie raffinate, ma anche, fuori dalla tela, gli abiti realizzati dalle più importanti maison di haute couture, tanta cartellonistica e vetri artistici. Ecco La Belle Époque. L’arte nella Parigi di Boldini e De Nittis, la grande mostra in corso a Palazzo Martinengo di Brescia, fino al 15 giugno. Oltre cento opere di Giovanni Boldini (1842-1931; il ferrarese che fu principe dei pittori mondani), Federico Zandomeneghi (1841-1917), Giuseppe De Nittis (1846-1884; morì nemmeno quarantenne a Saint-Germain-en-Laye, colpito da un ictus cerebrale; è sepolto nel cimitero di Père-Lachaise, il suo epitaffio fu scritto da Alexandre Dumas figlio), ma anche del livornese Vittorio Matteo Corcos (1859-1933) e di Antonio Mancini (1852-1930): sono loro gli italiani che a Parigi conquistano i collezionisti dipingendo passeggiate al parco, dame con cagnolini, chiacchiere alla brasserie, confidenze su una panchina del bois, boulevard affollati, notti di festa al Moulin Rouge, gite in barca. Donne soprattutto, dame della gran società con i tulle avvolti intorno alle vite sottili e alle spalle nude, giovinette languide al caffè o al pianoforte, pattinatrici, istitutrici a passeggio, nobili e socialite dell’epoca.
La città che ha appena perso la guerra contro la Prussia, deposto un imperatore, proclamato la Repubblica e vissuto nel 1871 la stagione della Comune e la sua violenta repressione, riesce velocemente a rialzarsi. Già nel 1889 colpisce i visitatori dell’Esposizione Universale con l’illuminazione elettrica (da qui il nome di Ville Lumière). E trova negli artisti italiani, les italiens de Paris, i suoi migliori narratori, «megafoni» di un’atmosfera vivace che si riverbera anche nelle affiche, cartelloni che sponsorizzano locali, cabaret, café chantant, grandi magazzini, riviste, quotidiani: un nuovo linguaggio che si ritrova in mostra nelle immagini di Leonetto Cappiello, Marcello Dudovich, Leopoldo Metlicovitz, questi ultimi due, tra l’altro, grandi illustratori de «La Lettura» storica del «Corriere della Sera».
Davide Dotti ha curato con Francesca Dini la mostra di Palazzo Martinengo. «Un tuffo in quell’età dell’oro — spiega — è un’immersione in un mondo felice, soprattutto per noi che tra guerre e crisi climatica viviamo in una… non diciamo brutta époque, ma insomma… E questi italiani, queste eccellenze che portano a Parigi la grande lezione rinascimentale, come si nota nel talento ritrattistico di Boldini, ma anche l’esperienza dei Macchiaioli, si fanno interpreti di quel periodo storico con una profondità spesso sottovalutata». Aggiunge Francesca Dini: «Sicuramente, nel ritrovare autori come quelli della Belle Époque, emerge il desiderio di esorcizzare il presente. Notiamo, d’altra parte, anche la volontà di capire meglio questi pittori, che sono stati a lungo vittime di pregiudizi. Li accusavano di essersi venduti, senza capire che furono loro a comprendere la novità di Parigi, a coglierne il ritmo prima dei francesi, a dare il via a un genere, a lasciare un’impronta». Primato italiano: «Si può dire che la Belle Époque la inventano i nostri artisti celebrando un’idea di eleganza che con il tempo esce da Parigi, prende velocità, accelera, fino a trasmettere, avvicinandosi alla Grande guerra, quasi un senso di angoscia».
La Belle Époque è anche il titolo della mostra — ricchissima, si va da Paul Gauguin a Pablo Picasso, a Henri Matisse, a Henri de Toulouse-Lautrec — in corso fino al 14 settembre nella sede dell’Hermitage russo di Kazan. Le note all’esposizione, dove manca qualsiasi riferimento al conflitto ucraino in corso, in qualche modo alludono alle riflessioni dei curatori della mostra bresciana: «La Belle Époque è stato il periodo europeo più felice e spensierato, un’era di pace e benessere che più di ogni altra ha incarnato il savoir-vivre. Il suo nome, che è apparso solo dopo la Prima guerra mondiale, non è privo di un accento nostalgico. La recente esperienza traumatica veniva paragonata ai bei vecchi tempi appartenuti irrimediabilmente al passato».
Tornando in Italia, a Palazzo dei Diamanti di Ferrara la mostra di primavera (22 marzo-20 luglio) è doppia: da una parte di nuovo Boldini, famoso concittadino di cui sono esposte quaranta opere (dipinti, disegni, incisioni, in attesa che qui riapra nel 2026 il Museo Boldini); dall’altra c’è Alphonse Mucha (1860-1939), pittore, disegnatore, fotografo, scenografo, progettista d’interni, creatore di gioielli ceco che realizzò i manifesti degli spettacoli di Sarah Bernhardt (celeberrimo quello di Gismonda, del 1894), che fu pioniere dell’Art Nouveau (o Liberty in Gran Bretagna) proprio tra fine Ottocento e inizio Novecento. «Il più grande artista decorativo del mondo», lo celebrò la stampa americana nel 1904.
La monografica di Mucha, realizzata da Arthemisia e Fondazione Ferrara Arte con la Mucha Foundation, ne racconta la biografia, il percorso, il gusto della decorazione. Una frase dell’artista spiega perfettamente la sua poetica: «La missione dell’arte — era solito dire Mucha — è esprimere i valori estetici di ogni nazione seguendo la bellezza della sua anima. La missione dell’artista è insegnare alla gente ad amare questa bellezza». E proprio nel segno di questa continua ricerca del bello è nata l’idea di affiancare Mucha e Boldini. Conferma Pietro Di Natale, direttore di Palazzo dei Diamanti: «Sono i cantori della bellezza a cavallo tra i due secoli. E sono entrambi due forestieri che arrivano a Parigi, dove è in costruzione la Torre Eiffel per l’Esposizione Universale del 1889, e la travolgono: Mucha vi sbarca nel 1887, Boldini si stabilisce in città nel 1871 (a Pigalle, ndr) e già pochi anni dopo i francesi fanno la coda per essere ritratti da lui. Le loro biografie si incrociano, i loro lavori ci fanno palpitare. E di questo trionfo del bello oggi abbiamo tanto bisogno…».
Una bellezza immediata, perturbante. A volte inquieta, fremente, sottilmente tormentata come quella delle dame di Boldini, altre volte sinuosa e florida come le fanciulle in fiore di Mucha, ninfe libere e innocenti, vestite di fiori e frutti. Di Natale continua: «Con l’Epopea slava (Slovanská epopej, il ciclo pittorico realizzato da Mucha tra 1910 e 1928: venti tele sui miti e la storia degli slavi, che presto dovrebbero trovare una residenza definitiva nel nuovo museo di Praga, ndr) Mucha individua l’arte come medicina curativa, come collante fondamentale per l’unione tra popoli». Un’altra sua rivoluzione: «Le sue opere stampate — conclude Di Natale — sono alla portata di tutti. E finalmente entrano nelle case».
Sono letture colte di autori di cui spesso si fatica a individuare la poetica, nascosta dietro angelici volti, nelle trame della decorazione, nelle pieghe di abiti favolosi di marchesine e principesse. Ecco allora che l’«operazione nostalgia» diventa occasione di studio e riscoperta. È quello che sta facendo il parigino Musée d’Orsay con due mostre. L’art est dans la rue (18 marzo – 6 luglio) torna sul tema delle affiche con trecento opere di artisti come Pierre Bonnard, Jules Chéret, Eugène Grasset, ovviamente Mucha, che rivelano le trasformazioni sociali e culturali di Parigi: «I cartelloni andavano a coprire le brutture della città per mostrarne una idilliaca e accessibile». Organizzata in collaborazione con la Bibliothèque nationale de France, la mostra è la prima di questa portata e ripercorre l’epoca d’oro del manifesto artistico, in dialogo con dipinti, fotografie, costumi, sculture e oggetti d’arte decorativa che evocano il mondo della strada di fine secolo. E poi, a settembre, sempre al Musée d’Orsay c’è Sargent. Les années parisiennes (1874-1884), fino all’11 gennaio 2026, la prima monografica, con novanta opere in mostra, dedicata al periodo francese di John Singer Sargent (1856-1925), l’americano amico di Boldini — entrambi pittori della vita moderna, le loro vicende artistiche e personali si incrociano ripetutamente — che proprio a Parigi, dove arrivò diciottenne nel 1874, affinò l’arte del ritratto, diventando un altro grande narratore della capitale francese, apprezzato da Henry James (fu lui a scrivere di Sargent: «Offre lo spettacolo stranamente inquietante di un talento che alle soglie della sua carriera non ha già più nulla da imparare»). Sargent, a cent’anni dalla morte, sarà protagonista anche alla Kenwood House di Hampstead, Londra, dal 16 maggio al 5 ottobre.
Espressione artistica appena successiva, ma in qualche modo riconducibile a un mondo «Parigi-centrico» e di benessere, è l’Art Déco, che Palazzo Reale di Milano celebra con Art Déco. Il trionfo della modernità: la mostra (curata da Valerio Terraroli; dal 27 febbraio al 29 giugno) ricorre nel centenario dell’Exposition internationale des arts décoratifs et industriels modernes di Parigi, l’evento che segnò l’affermazione dello «Stile 1925», o Art Déco, e che decretò il successo delle arti decorative italiane. In sostanza, la culla del made in Italy. A Palazzo Reale saranno presentate circa 250 opere: vetri, porcellane, maioliche, dipinti, sculture, oggetti d’arredo, tessuti, abiti, accessori, alta oreficeria, vetrate e mosaici. L’Europa degli anni Venti del Novecento: un mondo sospeso tra due guerre, ricco di novità creative e culto del lusso, dieci anni di limbo aperto alle avanguardie di scena a Parigi, Londra, Milano, Monaco, Vienna, Praga e Berlino, «palcoscenico di un’eleganza cinica e scintillante, dove ogni angolo riflette un’atmosfera unica, sospesa tra il desiderio di rinnovamento e il tentativo di superare i ricordi degli orrori della Prima guerra mondiale».
Un decennio, una tensione più fragile rispetto a quella della Belle Époque, più breve e precaria, dove il gusto per la modernità nasconde inquietudini politiche e sociali, bolle di incertezza che sarebbero scoppiate nell’arco di poco, travolgendo l’intera Europa.
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