Che chiesa sarà dopo Francesco? La domanda, doppiata la boa dei dieci anni di pontificato, ha una sua consistenza. E se di certo si dovrà passare per un conclave, è anche vero che il collegio cardinalizio è stato modificato profondamente dal papa che, con ogni probabilità, nei prossimi mesi continuerà ad operare in tal senso.
Anche perché nel frattempo Bergoglio ha detto chiaramente che non intende dimettersi, almeno finché la salute e le forze fisiche lo sosterranno, si “governa con la testa non con le gambe”, ha affermato di recente. Il che è vero naturalmente, ma le difficoltà imposte anche da una mobilità limitata, aumentano inevitabilmente col passare del tempo. Di più: Bergoglio ha pure spiegato che non è il caso di immaginare un papato a tempo, le dimissioni restano un’eccezione, nessuna illusione dunque, non sono in programma colpi di scena.
D’altro canto il recente ricovero al policlinico Gemelli, è sembrato un incidente di percorso normale per una persona di 86 anni con qualche serio acciacco di salute già all’attivo e una vita così densa di impegni e carica di responsabilità. E come tale è stato gestito, abilmente, anche dalla comunicazione vaticana che ha giocato, nel dar conto del ricovero, a sottrarre i problemi di salute fin quasi a farli scomparire mediaticamente. Poi è però emerso un particolare preoccupante: nel corso di una telefonata con un amico di Pesaro il cui contenuto è stato riportato dal Quotidiano nazionale, Francesco avrebbe detto: «Me la sono vista brutta. Sono arrivato incosciente in ospedale. Qualche ora di più, e non so se la raccontavo». Non proprio un intervento di routine, insomma.
Tuttavia, è un fatto che Francesco è tornato al lavoro dopo il ricovero, ha presieduto le celebrazioni pasquali e a fine mese andrà in Ungheria. L’orizzonte possibile del pontificato è forse dato dalla fine del sinodo mondiale della chiesa convocato dal papa per far discutere a tutto il popolo di Dio le forme dell’annuncio cristiano in un’epoca segnata da trasformazioni e mutamenti culturali e sociali. In un primo tempo la tappa conclusiva dell’assise doveva svolgersi il prossimo autunno in Vaticano, poi Francesco ha deciso di raddoppiare: l’ultima fase si terrà in due momenti differenti, una nel 2023 e l’ultima nell’ottobre del 2024. Sia come sia, il tema della successione, è sul tappeto come del resto quello di un eventuale rinuncia sia pure nelle modalità descritte dal pontefice.
C’è da dire che attualmente i cardinali elettori sono 123, ovvero solo due in meno rispetto alla cifra ideale indicata da Paolo VI per lo svolgimento di un conclave, ovvero 125 (va ricordato che nell’ultimo conclave gli elettori furono però 115). Tuttavia sono diversi i cardinali che nei prossimi giorni e mesi supereranno la fatidica soglia degli 80 anni oltre la quale si perde il diritto di voto per eleggere il papa; senza contare che Giovanni Angelo Becciu, attualmente sotto processo in Vaticano per la vicenda della compravendita dell’immobile londinese di Sloane Avenue con i fondi della segreteria di Stato e coinvolto anche nel corollario di indagini su presunte malversazioni finanziarie che ne sono seguite, non potrà entrare in conclave a meno che il papa non revochi le restrizioni che gli ha imposto.
Fra gli italiani hanno già superato gli 80 anni in questo 2023, ci sono i cardinali Domenico Calcagno e Angelo Bagnasco, ex presidente della Cei; i prossimi saranno Angelo Comastri e Crescenzio Sepe. Fra i non italiani, spicca il nome di uno dei più stretti collaboratori del papa: il card. Oscar Rodriguez Maradiaga che ha compiuto gli 80 il 29 dicembre scorso.
In tutto, nel 2023, i porporati che supereranno l’età che permette di partecipare al conclave saranno 11; è presumibile quindi che Francesco nei prossimi mesi proceda alla convocazione di un concistoro per la nomina di nuovi cardinali. Anche perché nel 2024, usciranno di scena altri 13 “grandi elettori”. In meno di due anni, dunque, si potrebbe assistere a un ricambio importante nella composizione del collegio cardinalizio, la cui connotazione sarà sempre più legata al pontificato di Francesco. Bergoglio, infatti, già oggi, solo fra i cardinali con diritto di voto, ha nominato 81 porporati su 123, sono invece 10 quelli che hanno ricevuto la “berretta rossa” da Wojtyla e 32 quelli designati da Benedetto XVI.
Attenzione però: ciò non significa che vi sia un’ipoteca sul successore di Francesco, anzi, calcoli del genere rischiano di non trovare riscontro nella realtà. E l’esempio più prossimo è dato proprio dall’elezione al soglio pontificio dell’ex arcivescovo di Buenos Aires; sul suo nome vi fu una convergenza di correnti di pensiero diverse unite dall’obiettivo comune di portare la Curia romana fuori dalla catena di scandali che l’avvolgeva – fuori dai legami ambigui coni poteri politici ed economici italiani – e di riformarne apparati, strutture e comportamenti.
È stato lo stesso ex segretario personale di Ratzinger, mons. Georg Gänswein, a ricordare di recente come il favore del papa dimissionario andasse in realtà all’ex arcivescovo di Milano, il cardinale Angelo Scola, dato per vincitore anche in ambienti ecclesiali tanto che la Cei incorse in una gaffe storica facendo pervenire ai giornalisti, appena era stato eletto il nuovo pontefice, un messaggio di congratulazioni indirizzato appunto a Angelo Scola; qualcuno si era dimenticato di cambiare il nome.
UN COLLEGIO SEMPRE MENO EUROCENTRICO
Di molte variabili bisognerà comunque tenere conto guardando al futuro, in primo luogo quella geografica. La chiesa, istituzione universale per definizione, ha infatti ampliato – tanto più sotto il pontificato del papa argentino – la propria proiezione internazionale; da una parte per una “vocazione” tipica di Bergoglio di spostare il baricentro del cattolicesimo verso il sud del mondo per quell’attenzione alle “periferie” che ne ha caratterizzato il magistero, in secondo luogo perché la chiesa del futuro probabilmente avrà sempre di più un volto extraeuropeo.
Tuttavia, il peso del vecchio continente è ancora significativo. L’Europa, infatti, ad oggi, conta su 48 cardinali elettori, il nord America 16, il centro America cinque, il sud America 15 (il continente americano nel suo complesso, 36); l’Africa 16, l’Asia 21, l’Oceania tre. Se è un dato di fatto, dunque, che ormai il “resto del mondo”, supera nettamente l’Europa, è vero pure che l’America nel suo insieme si va rafforzando.
Certo la corrispondenza continentale non basta: bisognerà poi tenere contro delle divisioni interne, delle alleanze, delle tendenze culturali e politiche. In ogni caso la questione geografica non può essere sottovalutata dato l’impatto che la figura del papa ha a livello mondiale.
La componente italiana a livello nazionale resta quella maggioritaria, sia pure ridimensionata nei numeri. A mancare, in questa fase, sono in realtà le personalità di spicco fra vescovi e cardinali della penisola; eccezione importante è rappresentata dal segretario di Stato, il card. Pietro Parolin, diplomatico di lungo corso, stimato a livello internazionale, che ha curato in questi anni molti dei dossier più delicati della Santa sede: dalle relazioni con Cina e Vietnam, ai tentativi di mediazione nel conflitto in corso in Ucraina, ai rapporti fra Stati Uniti e Cuba dove il Vaticano ha esercitato un ruolo di intermediazione importante. Parolin rappresenterebbe da una parte la continuità con Francesco sui temi globali, e forse, su un altro versante, rassicurerebbe quei settori ecclesiali che non hanno gradito troppo il “movimentismo” pastorale di Bergoglio.
Ma il papato può davvero tornare in Italia? Questo sembra l’interrogativo al quale è difficile rispondere positivamente in questo momento. All’interno della conferenza episcopale per ora sembra emergere solo il nome del capo dei vescovi, Matteo Zuppi, anche se forse, parlare di una sua possibile ascesa internazionale, appare prematuro.
È possibile, in generale, che i cardinali che si riuniranno nella Sistina per il prossimo conclave cerchino una personalità che, progressista o moderata che sia, abbia in mente di tenere unita la chiesa procedendo, per così dire, adagio. Che poi è la strada scelta da Francesco in questa seconda parte del pontificato dopo aver provato a sottoporre a forti sollecitazioni il corpo ecclesiale; il rischio contrario è quello di sempre: che a forza di andare piano la chiesa si fermi del tutto. D’altro canto proprio il pontificato di Francesco ha fatto emergere fratture profonde fra tradizionalisti e riformatori.
LA CARICA DEGLI AMERICANI
Dall’Asia, è stato a lungo dato in crescita il cardinale Luis Antonio Tagle, ex arcivescovo di Manila, chiamato dal papa a guidare la congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli (Propaganda Fide, oggi diventato il dicastero per l’Evangelizzazione) e Caritas internationalis; e proprio da quest’ultima sono però arrivati dei guai imprevisti per Tagle, l’organismo è stato infatti commissariato perché sono emersi dei problemi amministrativi e di gestione anche se non di carattere finanziario faceva sapere il Vaticano. Nessuno scandalo insomma. Sta di fatto che dal novembre scorso tutti gli incarichi sono stati azzerati, mentre a maggio una nuova assemblea dell’organismo che riunisce 163 enti caritativi cattolici sparsi in tutto il mondo, eleggerà i nuovi vertici. Tagle resta, in ogni caso, uno dei leader più in vista della chiesa universale, senza contare che viene dall’unico vero polmone cattolico dell’Asia, le Filippine.
Negli States si sta invece verificando una situazione anomala: se infatti molti vescovi statunitensi sono decisamente ostili al magistero di papa Francesco, criticato per le sue aperture che, secondo molti tradizionalisti, metterebbero in discussione la dottrina cattolica, il papa, da parte sua, ha nominato diversi cardinali più in linea col suo pensiero. Si tenga presente che, facendo i conti oggi, le porpore Usa con diritto di voto sono 10 (gli italiani 16). D’altro canto, il cattolicesimo popolare americano è estremante più articolato e non classificabile in modo netto di quanto in genere non si creda.
Fra i cardinali conservatori più solidi figurano Timothy Dolan, arcivescovo di New York e Daniel Di Nardo, arcivescovo di Glaveston-Houston; nell’area liberal e bergogliana troviamo i cardinali Blase J. Cupich, arcivescovo di Chicago, Wilton Gregory, il primo cardinale afroamericano, arcivescovo di Washington, e James Tobin, arcivescovo di Newark. Ci sarebbe poi il card. Sean Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston e capo della Pontificia commissione per la tutela dei minori, uno dei più stretti collaboratori del papa. O’Malley ricevette qualche voto già nel corso dell’ultimo conclave, ma nel 2024 compirà 80 anni.
IL C9 LABORATORIO DI CHIESA E DI CARDINALI
Un buon modello cui guardare per osservare le figure emergenti nella chiesa di Francesco, è poi il cosiddetto C9, cioè il Consiglio dei cardinali che coadiuva il papa nel governo della chiesa universale, di recente rinnovato da Bergoglio.
Qui troviamo una serie di personalità di spicco che, tutte insieme, mostrano il volto di una chiesa capace ancora di rappresentare il mondo. Figurano infatti nel gruppo i cardinali Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo) e Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay (India); il primo espressione autorevole di un’Africa in cui la chiesa cresce anche numericamente ma fa fatica a seguire la strada dell’inculturazione del Vangelo, ancora non si scorge del tutto, insomma, una chiesa dal “volto africano”, almeno a livello di gerarchie. In quanto a Gracias, non può essere dimenticato che l’India è uno dei paesi più popolati del mondo dove il cattolicesimo si sta facendo strada con difficoltà anche per via delle limitazioni e degli attacchi cui è sottoposto.
C’è poi lo spagnolo Juan José Omella y Omella, arcivescovo di Barcellona. Omella è anche il presidente della conferenza episcopale del paese iberico, una scelta interessante, quest’ultima, se si tiene conto delle forti spinte indipendentiste che hanno percorso la Catalogna e la sua capitale negli ultimi anni, di certo il cardinale è uomo di dialogo, un costruttore di ponti per dirla con il linguaggio di Francesco. Si notano poi i nomi di Gérald C. Lacroix, arcivescovo di Québec (Canada) e Sérgio da Rocha, arcivescovo di São Salvador da Bahia (Brasile).
La chiesa canadese ha acquisito particolari meriti sul campo agli occhi del papa avendo favorito la riconciliazione della chiesa con i popoli indigeni dell’America, un cammino culminato di recente nel ripudio ufficiale della “dottrina della scoperta” da parte della Santa sede, un evento storico attraverso il quale la chiesa ha fatto i conti con il sostegno dato nei secoli passati al colonialismo delle potenze europee. In quanto al Brasile è il gigante cattolico dell’America latina, l’altra faccia della chiesa latinoamericana insieme a quella argentina. Fra i brasiliani, dobbiamo infatti annoverare anche il moderato Odilo Pedro Scherer, arcivescovo di San Paolo, già considerato un papabile al precedente conclave.
VIENNA, MARSIGLIA E BUDAPEST
A questo elenco sommario di personalità più o meno emergenti, tuttavia, va aggiunto, e annoverato fra i possibili successori di Francesco, un peso massimo della chiesa europea come l’arcivescovo di Vienna, il card. Christoph Schönborn. Schönborn, a lungo considerato un teologo brillante, vicino a Ratzinger, col tempo si è distinto per essere uno dei sostenitori più intelligenti di papa Francesco; l’arcivescovo austriaco, infatti, ha portato avanti una linea della riforma ragionata dell’insegnamento della chiesa su questioni come l’accoglienza ai divorziati risposati, alle persone lgbtq, o in riferimento al ruolo dei laici, alla necessità di non avere incertezze nello scoperchiare il pentolone dello scandalo degli abusi sessuali mettendo i bisogni delle vittime al primo posto.
Fra i cardinali di nomina più recente, invece, non può essere dimenticato l’arcivescovo di Marsiglia, Jean-Marc Aveline, bergogliano nello stile pastorale, europeo nell’approccio teologico. Francesco ha annunciato che il prossimo settembre si recherà in visita a Marsiglia, città multietnica e multireligiosa, simbolo di quel Mediterraneo considerato mare d’incontro fra popoli e culture. Aveline ha proposto al papa di tenere un sinodo del Mediterraneo a Marsiglia e sembra che l’iniziativa non sia dispiaciuta al pontefice.
Nelle chiese dell’Europa orientale, resta in auge l’arcivescovo di Budapest, il cardinale conservatore Péter Erdő. In Ungheria, in ogni caso, il papa andrà in visita alla fine di aprile, orizzonte del viaggio sarà la guerra in corso nella confinante Ucraina; Francesco proverà ancora una volta a farsi messaggero di pace e mediatore fra le parti in lotta e si rivolgerà al contempo ai tanti ucraini fuggiti dal loro paese o che stanno soffrendo per le conseguenze del conflitto.