Il segretario nega il flop e prepara una convention a Roma Pranzo dei tre leader. I dubbi di Meloni sulla candidatura
di Tommaso Ciriaco (Roma) e dal nostro inviato Lorenzo De Cicco (L’Aquila)Alla tavolata di Palazzo Chigi, per il «pranzo di lavoro» post elettorale, Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani si sono accomodati con umori diversi. Due raggianti, uno crucciato. Facile indovinare chi dei tre commensali avesse il sorriso tirato. Dal voto in Abruzzo, la Lega esce ancora una volta ridimensionata: -120mila voti rispetto al 2019. È vero, non c’è stato un tracollo come in Sardegna due settimane fa, quando gli exlumbard erano ruzzolati al 3,7%, ma nella tornata che ha assegnato il bis a Marsilio il Carroccio deve accontentarsi del 7,6%. Significa che la china non si è arrestata: la Lega arretra ancora rispetto alle Politiche del 2022, quando nella regione era all’ 8,1%, e va infinitamente peggio rispetto alle Regionali precedenti, che cadevano nell’anno di grazia del salvinismo, il 2019 appunto: all’epoca il partito scavallava il 27%, poco prima del 35% delle Europee. Soprattutto, il voto abruzzese certifica il sorpasso di Forza Italia, che doppia quasi lo spadone di Alberto da Giussano. Già alle Politiche, FI in Abruzzo aveva superato la Lega, ma di 3 punti. Adesso è due volte tanto. E anche a Cagliari gli azzurri erano finiti sopra. È molto più di un campanello di allarme, a via Bellerio, perché il rischio è che con le Europee la Lega finisca relegata a terza forza di coalizione.
Sembra un paradosso, ma anche gli alleati hanno iniziato da tempo a porsi il problema della debolezza di Salvini. Ieri, conversando in via informale con alcuni suoi parlamentari, Tajani si è mostrato soddisfatto del risultato di FI, ma preoccupato per gli equilibri della maggioranza. Se troppo mortificato nelle urne – è stato il senso dei ragionamenti del vicepremier berlusconiano, riportati da diverse fonti – il leghista potrebbe reagire male facendo saltare il banco dopo le Europee. Chi si ritrova senza via d’uscite politiche, può cedere a colpi di testa, fratture inaspettate, tentazioni di crisi. Magari favorite dalla cavalcata di Donald Trump negli Stati Uniti.
È lo stesso incubo dell’animale ferito che preoccupa a giorni alterni anche Meloni. A giorni alterni perché dopo la sconfitta sarda, ad esempio, la premier aveva giurato terribile vendetta politica contro Salvini. E anche la recente mossa di portare a Palazzo Chigi come sherpa del G7 Elisabetta Belloni, attualmente direttrice del Dis, mostra la volontà della leader di rafforzarsi, blindarsi, mandare un segnale ad amici e avversari. Ma anche la presidente del Consiglio teme che un’eccessiva mortificazione dell’alleato possa provocare risultati deflagranti sull’esecutivo, dopo le Europee. Potesse decidere, raccontano i fedelissimi che la consigliano, indebolirebbe ancora il segretario del Carroccio, ma senza arrivare al punto di rottura. Per questo, anche la candidatura della premier per l’Europarlamento resta in bilico: vorrebbe correre, pensa che alla fine sarà inevitabile, ma sa che potrebbe danneggiare irrimediabilmente Salvini. E siccome anche Tajani accarezza l’opzione di presentarsi alle Europee, l’effetto potrebbe assomigliare a quello di una tenaglia.
Dentro la Lega, l’avvicendamento di Salvini ormai non è più considerato tabù. I bossiani tornano a picconare. Paolo Grimoldi, l’ex segretario della Lega lombarda, vicino alSenatur ,ieri ha chiesto al vicepremier di fare «un passo di lato» dal partito e di togliere il suo cognome dal simbolo alle Europee, «per evitare una débâcle». E mentre Salvini provava a definire un «buon risultato» il 7,6% in Abruzzo – e un fedelissimo come Claudio Durigon lo esaltava addirittura come «fantastico» – dai governatori del Nord si registrava una malcelata voglia dino comment : «Non ci focalizziamo sui piccoli risultati territoriali », tagliava corto il presidente lombardo Attilio Fontana. «Evito di parlare delle montagne russe del voto », sfuggiva alla domanda il veneto Luca Zaia. Segno che la narrazione del segretario fatica ormai a fare breccia, in un partito considerato un tempo una falange. In gioco c’è soprattutto l’identità della Lega. Sempre Zaia (come Bossi) ha ammesso di rimpiangere l’impostazione settentrionale, il Nord nel simbolo. Salvini invece non può rinunciare al suo progetto di Lega nazionale. Ne va della sua stessa leadership. Ecco perché il segretario sembra tentato da un’ultima puntata: far partire la campagna delle Europee non da una città del Settentrione, ma da Roma. Presto: tra fine marzo e i primi di aprile, con una kermesse che raduni tutto lo stato maggiore del partito. Una convention , non un congresso. Di quello se ne parlerà dopo il voto di giugno. E molti big della Lega, se il declino sarà confermato, non ci andranno per applaudire.