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31 Dicembre 2025Le dichiarazioni rilasciate dal direttore artistico dei Teatri di Siena a margine della presentazione del concerto di Capodanno e della nuova stagione teatrale introducono un tema che va oltre la legittima difesa delle scelte artistiche. Il riferimento a un pubblico senese “eccezionale”, dotato di “nobiltà d’animo” e di particolare spessore culturale, accompagnato da giudizi liquidatori verso le critiche, costruisce infatti una cornice problematica: quella in cui il dissenso non viene discusso, ma delegittimato.
Si delinea così una contrapposizione implicita tra un pubblico idealizzato, elevato a misura morale della città, e un insieme indistinto di voci critiche ridotte a “pochezze” o “scivolate”. In questo schema, il confronto viene sostituito da una gerarchia simbolica: chi approva appartiene alla comunità virtuosa, chi solleva dubbi ne resta ai margini. È una dinamica che sposta il discorso dal piano delle scelte culturali a quello del giudizio sulle persone, impoverendo il dibattito pubblico.
Questa impostazione rivela una concezione difensiva della cultura, intesa come spazio da proteggere più che come ambito di confronto. Quando la qualità viene fatta coincidere con l’appartenenza e la critica è letta come minaccia, la cultura smette di essere un terreno aperto e diventa un recinto identitario. Non è una questione di ambizione o di prestigio, ma di metodo: una politica culturale matura si misura sulla capacità di reggere il dissenso, non di neutralizzarlo.
In questo quadro si colloca anche il richiamo insistito al “successo”, ai sold out e ai grandi nomi. Il dato quantitativo, in sé legittimo, viene assunto come prova autosufficiente di valore. Ma il “successo” non può sostituire una riflessione sulle finalità pubbliche delle scelte culturali: su quali pubblici si intercettano, con quali linguaggi, e soprattutto con quale idea di città. I numeri possono descrivere un risultato, non giustificarne automaticamente il senso.
È qui che emerge un nodo ulteriore, esplicitato dallo stesso Bocciarelli: l’idea che teatro ed eventi in Piazza del Campo — Capodanno compreso — rispondano a un’unica regia culturale. Ma proprio questa assimilazione solleva interrogativi che non possono essere liquidati come polemica. Che rapporto c’è tra una politica teatrale e feste di piazza pensate per un consumo immediato e indistinto? E siamo certi che il pubblico di Capodanno coincida davvero con la comunità cittadina, o non sia piuttosto composto in larga parte da presenze occasionali, turistiche, estranee a qualsiasi continuità culturale?
In una politica culturale solida, il “successo” non chiude il discorso: lo apre. Serve a interrogarsi su chi partecipa, perché lo fa e a quali condizioni. Quando invece diventa un argomento di autorità, usato per sottrarre le scelte al confronto, la cultura rischia di ridursi a strumento di legittimazione, più che a spazio critico condiviso.
Il punto, allora, non è difendere o attaccare singole iniziative, ma interrogare il modello che le tiene insieme. Una città culturalmente viva non teme le domande, non moralizza il dissenso e non oppone presunte “nobiltà d’animo” a presunte “pochezze”. Accetta il conflitto delle idee come parte della propria vitalità democratica. Quando questo viene meno, ciò che resta non è una cultura forte, ma un’immagine rassicurante di sé, fragile proprio perché incapace di confrontarsi con la complessità del proprio spazio pubblico.





