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5 Marzo 2024DIALOGO
Immigrazione, globalizzazione, crisi dei valori e dell’idea tradizionale di cristianesimo pongono di fronte alla necessità di fare e vivere la comunità guardando ciò che ci distingue e ci unisce con autentico spirito evangelico
Assistiamo sempre più alla crisi dell’idea di cultura, e alla deculturazione che investe anche le religioni. Nel mondo dove tutto diventa omogeneo, come salvare l’ancoraggio di una condivisione culturale dei gruppi e delle comunità? Il cristianesimo, in particolare, incarnato da sempre in una cultura, subisce, non da oggi, l’urto della globalizzazione. Come leggiamo nella Evangelii Nuntiandi : la rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre (II). Dobbiamo quindi adeguarci a quello che Olivier Roy definisce un globish religioso, a norme standardizzate, in mancanza di un nuovo legame sociale? Certamente è fondamentale salvare le espressioni culturali di ogni gruppo, i modi specifici con cui una comunità, un popolo, ma anche una generazione (si pensi alla “cultura giovanile”) vede il mondo. Ma, allo stesso tempo, proprio perché la ricchezza della pluralità è inestimabile, si pone per i credenti il problema di investire di più sulla condivisione dei modi di pensare l’altro, quella comunione che unisce in profondità gli esseri umani e che deriva dal riferimento alla comune fede nella Parola di Dio.
Diversità di culture e comunione nella fede evangelica, varietà di manifestazioni e unità nello Spirito: come può essere realizzato l’ideale della doppia appartenenza della Lettera a Diogneto in un’epoca di uniformità globale?
In risposta ci si potrebbe limitare a “salvare” le tradizioni, i valori, i modi di vivere che caratterizzavano le comunità cristiane del passato, quando era saldo il rapporto tra le famiglie, la società e la Chiesa, da un lato, e la cultura che esprimevano, dall’altro. Ma dovremmo fare attenzione a non cadere nella retorica del buon tempo antico, rimpiangendo ciò che si è trasformato radicalmente a causa di mutamenti inesorabili come l’industrializzazione, l’urbanizzazione, i cambiamenti demografici, la democrazia, il web onnipresente. Sono sempre più rari i villaggi con la loro economia comunitaria, è in crisi la parrocchia, è cambiato il rapporto tra le generazioni e tra uomo e donna, le nuove tecnologie uniscono il mondo nelle loro reti. Anziché rimpiangere il passato, e limitarci a recriminare sull’individualismo moderno, possiamo chiederci come valorizzare l’autenticità di vita permessa dalla nuova libertà dei singoli rispetto alle norme del gruppo o del clan?
Alla luce di tale decostruzione delle culture ci chiediamo se non dovremmo ripensare l’approccio interculturale proposto dalle scienze umane e dalla teologia. Ma prima va realizzata un’operazione coraggiosa, e cioè criticare gli stereotipi che accompagnano l’idea di un dialogo interculturale basato solo sul rispetto delle differenze. Chiaramente le differenze di comportamenti, mentalità, usi e riti, linguaggi, credenze esistono, e vanno protette proprio per evitare un appiattimento standardizzante. Tuttavia, dobbiamo pensarle in un altro modo, nei loro dinamismi interni, senza utilizzarle per distinguere e separare mondi culturali. Ciò non significa rinunciare al
valore della diversità, alla ricchezza, al rispetto della singolarità che ha caratterizzato il passaggio da una visione basata sull’etnocentrismo, la chiusura e il razzismo alla cultura dell’incontro di papa Francesco. La Chiesa, in questo senso, ha fatto un lungo cammino, da Bartolomé de Las Casas al Concilio Vaticano II, per apprezzare, come afferma la Gaudium et Spes (53) le differenze e la pluralità delle culture; ma serve altrettanto cammino per metterle maggiormente in dialogo. Si tratta del passaggio, proposto dal cardinale Ratzinger nel 1993, dalla “inculturazione” alla “inter-culturalità.
Proprio perché la pluralità esiste, ed è minacciata dall’uniformità dei consumi e dei linguaggi, dobbiamo trovare altri modi per preservarla che non sia la conservazione quando congela e cristallizza le culture. Basti pensare al travaglio della dialettica attuale tra le culture africane e quella occidentale/europea nella Chiesa del Sinodo, o alle tensioni dentro le congregazioni religiose tra le persone di generazioni e provenienze nazionali diverse, o al lavoro di suor Enrica Ottone sull’interculturalità nelle Facoltà Pontificie. Nella storia della Chiesa è stata fondamentale la critica alla mentalità colonialista o il ripudio della tendenza a mettere in gerarchia le culture, ponendo spesso quella occidentale al primo posto. Come scriveva Yves Congar nel 1986 in Diversità e comunione « Evangelizzare non è soltanto “trapiantare” un modello di Chiesa, quanto far nascere la Chiesa in una terra da un popolo». In realtà, esiste anche il rischio, speculare, che la valorizzazione della differenza porti a essenzializzarla e reificarla, con l’esito di contrapporre le identità culturali, e di entrare nella stessa logica del cosiddetto “scontro di civiltà” (Occidente “contro” islam o contro Asia). Quella che definiamo “cultura”, come sistema simbolico di significati, non è mai pura, non è limitata dentro precisi confini geografici, cambia continuamente, è frutto di continui scambi. Le culture non sono totalità uniformi, hanno sempre dialogato tra loro e si sono sempre intrecciate fin dalle origini della storia. Non hanno confini netti perché l’altro è in noi e noi nell’altro. Per esaltare le differenze forse abbiamo trascurato le somiglianze?
Come afferma l’antropologo Jean-Loup Amselle, ogni mondo culturale è a sua volta frutto di intrecci, innesti e interdipendenza. Non si tratta solo di ammettere che ci sono tante tradizioni – da quella asiatica a quella africana, da quella ebraica a quella araba – ma che questi universi a loro volta sono multiculturali (vedi i concetti di ibridismo, creolizzazione, meticciato). Isolare la differenza porta a sottovalutare e sottostimare le relazioni che intercorrono (nel passato e nel presente) tra loro. Lo stesso possiamo dire dell’Europa, che con la massiccia presenza di immigrati è – non da oggi – multiculturale. L’Occidente è “altro” a se stesso.
Paradossalmente, oggi troviamo tale forma di culturalismo e di opposizione binaria anche nella cosiddetta cancel culture. I movimenti, soprattutto americani, della Critical race theory, sulla base delle legittime rivendicazioni per combattere il razzismo (oltre a sessismo, omofobia etc), portano con sé anche una preoccupante tendenza all’intolleranza e alla censura, ma soprattutto avallano l’idea di razze distinte, congelando i vari gruppi all’interno della loro prigione identitaria. Per combattere il razzismo si ricreano le razze. In passato, quindi, la concezione prevalente dell’identità culturale ha generato un universalismo imperativo e egemonico (spesso dell’Occidente). Ma nella globalizzazione l’universalismo totalizzante si è frantumato e resta un differenzialismo e una deculturazione che frammenta le relazioni umane. La risposta non può essere una accettazione dell’altro come “diverso” ispirato a un relativismo non solo culturale ma anche morale, che rischia di eludere la ricerca del comune. Se la visione universalista deve inevitabilmente rinunciare a imporre le sue regole, tuttavia la risposta non può essere un relativismo che congela le differenze dietro un’ambigua idea di rispetto, anziché cercare insieme quello che François Jullien definirebbe “il comune”. Giudicando le culture relativamente al contesto in cui nascono e si sviluppano, il relativismo rispetta le differenze ma nel contempo le separa nel loro cosmo autonomo, considerandole come isolate e impermeabili e rendendo difficile, se non impossibile, il dialogo.
Un esempio evidente della strumentalità dell’idea di identità culturale riguarda le donne. Molte problematiche interculturali, non a caso, riguardano temi legati alla sessualità e al matrimonio: unioni tradizionali, ruolo femminile nella famiglia… Un falso rispetto relativista delle culture “altre” nasconde spesso le dinamiche di potere sulle donne, non solo l’influenza della Chiesa ma anche il dominio delle tradizioni locali (poligamia, infibulazione, matrimoni forzati). È a proposito del ruolo femminile e sulle tematiche della sessualità che, non a caso, emerge di più l’esigenza di conservare le identità culturali, le tradizioni o “l’ethos culturale” di un continente. L’approccio interculturale, pur non incontrando teoricamente opposizioni, non sempre trova effettiva attuazione nel contesto ecclesiale per rafforzare il legame tra le comunità con i loro particolari linguaggi e modi di pensare. Le persone, infatti, ( e non le culture) quando si confrontano creano un tra. Come osserva papa Francesco, nell’incontro è l’abbraccio il protagonista. Nel “tra” troviamo una tensione che addita non la prospettiva dell’identità rocciosa, ma del comune da trovare. Per quanto riguarda la Chiesa, tutte le culture possono essere giudicate alla luce del Vangelo, riletto insieme in una prospettiva sinodale: è la comunità cristiana che accoglie i contenuti e le risorse culturali di singoli e gruppi, ne discerne il significato e li confronta, in un continuo dialogo e incontro.
Si tratta di un percorso di ricerca del “comune” e di tensione all’universale cristiano della fede, nello spirito della Fratelli tutti, che procede, come scrive don Maurizio Chiodi, dall’esperienza del particolare. Si legge nel documento Fede e inculturazione della Commissione teologica internazionale (1987) che il pluralismo culturale va interpretato «non come una giustapposizione di universi chiusi, ma come la partecipazione al concreto di realtà orientate tutte verso i valori universali dell’umanità». C’è quindi da attuare nel concreto delle comunità e della dinamica sinodale un percorso interculturale che dall’ascolto delle differenze, dalla coscienza di quanto cambino nel tempo, e dalla scoperta della loro trasversalità, porti al discernimento nella comunità, che confronta e valuta le espressioni culturali con uno sguardo evangelico.