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24 Maggio 2025LA DANZA DEI MARANZA
Drammi, risse, tatuaggi e smanicati di un fenomeno in autotune. Dei trapper il catalogo è questo. Un libro
di
Sì Israele, d’accordo l’utero in affitto, ma vogliamo mettere quanto è divisiva la trap? Quella musica cantata da ceffi come Tony Effe, Geolier, Baby Gang, Shiva, Tedua, Simba La Rue, che anche (anzi soprattutto) nel più woke e sensibile elettore del Pd (oltre che nel fratellino d’Italia tutto legge e ordine) fan venir su dei razzismi che altro che “Indovina chi viene a cena”, e fa proferire inevitabilmente, da Capalbio a Predappio, un unico grande interrogativo: “Come fai ad ascoltare ’sta merda?”.
Ecco, ora all’interrogativo che ci angoscia risponde un libro, di grande valore anche sociale, che ci insegnerà che anche davanti al ragazzotto in tuta, borsello tarocco Vuitton, sneaker Nike tn, smanicato, speaker bluetooth portatili da cui spara musica a tutto volume, non dobbiamo vacillare tenendo stretto il portafoglio bensì capire, comprendere, e finanche apprezzare.
Il volume si intitola “Maxi-rissa. I diari della trap”, è scritto da due multiformi cinquantenni (Alberto Piccinini che è anche autore di “Blob”, Giovanni Robertini di “Splendida cornice”), è appena uscito per Nottetempo ed è stato presentato al Salone del libro. Nasce da una rubrica, “Boomer gang”, sulla rivista Rolling Stone dove i due hanno raccontato in questi anni questa strana galassia della trap italiana, che viene spesso confusa coi maranza, e cioè coi giovinastri cafoni che ci terrorizzano nelle metropolitane. Ma, attenzione, se ogni trapper è maranza, per essere trapper non basta il borsello (tarocco).
Questo pezzo serve anche come manuale di conversazione per temi su cui nessun lettore del Foglio si avventurerebbe mai. E per capire come mai, se noi boomer lo aborriamo, su TikTok e Spotify il maranza regna invece sovrano. Apprendiamo innanzitutto che maranza è una parola antica. Così venivano chiamati infatti sotto la Madonnina i tamarri nello slang paninaro anni 80, portato da Enzo Braschi a “Drive In”. Il libro è anche un saggio sull’Italia di oggi e soprattutto su Milano, la Milano trasformata in Caracas dalle narrazioni catastrofiste. Geograficamente, la Heimat del trapper milanese è San Siro, la ex zona residenziale e ora okkupata e sgarrupata chiamata anche “Zona 7” dai Seven 7oo, collettivo di trapper di seconda generazione (termine centrale per capire il fenomeno, soprattutto a Milano, dove i trapper sono sempre appunto di seconda generazione, nordafricana o almeno napoletana. Vedremo la differenza con Roma). Così Neima Ezza, che si chiama in realtà Amine, è nato in Marocco e poi finisce appunto a San Siro e a San Siro dedica il pezzo “Piccolo principe”, storia della sua emigrazione. Altro cantore di San Siro è Rondodasosa o “Rondo”, nome d’arte di Mattia Barbieri.
L’altro grande epicentro trappista è Rozzano. Un tempo famosa principalmente per ospitare la pista prove di Quattroruote, detta anche Rozzangeles, oggi è una Beverly Hills del degrado: lo scrittore Jonathan Bazzi che ci è cresciuto così la descrive: “Il Bronx del Nord: il paese dei tossici, degli operai, degli spacciatori. I tamarri, i delinquenti, la gente seguita dagli assistenti sociali”. Bronx a elevato genius loci musicale, ha dato i natali a Biagio Antonacci e ci è cresciuto pure Fedez. I nomi delle vie, come le descrivono i due autori, ne fanno una Centocelle milanese: “Giacinti, Dalie, Lillà e pure il centro commerciale Fiordaliso”. Rozzano è talmente un set perfetto per il trappismo, è talmente land of maranza che a un certo punto per lanciare il giovane trapper Paky, al secolo Vincenzo Mattera, venuto su lì, l’ufficio stampa della sua casa discografica organizza un tour per giornalisti su un van nero dai vetri oscurati, tra il safari e la parodia dell’inviato nelle zone di guerra, sui luoghi simbolo di Rozzi (titolo della hit con cui Paky si è fatto conoscere). C’è poi l’immortale Cinisello Balsamo o “Ciny” come lo canta l’autoctono Sfera Ebbasta. Fuori Milano c’è invece la Genova di Tedua. E c’è la, al solito, inclassificabile Napoli, presidiata da Geolier, che manda in cortocircuito tutto. Perché con Geolier i razzismi si sovrappongono e confondono: come dire, possiamo tollerare il maranza marocchino, tunisino, di Cinisello Balsamo, ma un maranza napoletano è troppo. Le reazioni isteriche ai successi di Sanremo lo testimoniano.
E a Roma? A Roma i trapper allignano soprattutto nella Ztl: il più noto è Tony Effe, nome d’arte di Nicolò Rapisarda, rione Monti, già con la Dark Polo Gang, di cui faceva parte anche Side Baby, figlio dello sceneggiatore e regista Francesco Bruni e dell’attrice Raffaella Lebboroni, che interpretava una delle lesbiche milanesi nel primo “Ferie d’agosto” di Virzì, insomma Pd in purezza. I due autori tracciano una affascinante genealogia mitologica di Tony facendone risalire l’archetipo a Giggi er Bullo, antica macchietta di Petrolini che è stata cavallo di battaglia pure di Proietti e Montesano. Conosciuto “a ogni commissariato” e “tredici volte carcerato”, ma a me, sarà la vicinanza ai Fori imperiali, o alla casa natale dell’attore, pare più una tipica maschera da romano antico, e dalla pigrizia nelle movenze nulla mi toglie dalla testa che sceso dal palco si metta una vestaglia con le iniziali, il plaid, le pantofole e guardi la televisione generalista (insomma, Albertone).
Oppure andrà dalla nonna. Perché le nonne sono fondamentali per questi trapper cattivoni: c’è appunto la nonna di Tony; in un’intervista a Teresa Ciabatti su 7, il trapper ha raccontato che da lei (dalla nonna, non dalla Ciabatti) si rifugiava il pomeriggio da ragazzino insieme agli amici “tatuati e vestiti strani, con orecchini e collane”. Nella stessa intervista Tony ha detto che stava prendendo lezioni di italiano perché non si sente molto padrone della lingua, e anche questo indica la straordinarietà dei trapper come alfieri della nuova società. Se il trapper milanese di seconda generazione si integra benissimo,
il romano nato a Roma prende lezioni della propria lingua madre. Comunque le lezioni hanno fatto effetto, e ora Tony ha annunciato l’uscita del suo primo libro. Altra nonna è quella di Fedez, che si vedeva nella serie dei Ferragnez; dotata di busto di Mussolini, cartomante, spesso consultata, è un grande simmetrico della nonna antifascista di Luca Marinelli, il Mussolini nella serie Sky, che benedice la performance del nipote, dopo averne guardato sette ore di fila (che grande romanzo italiano sarebbe, la lotta delle nonne “fa” e “antifa”, magari al Colosseo, con arbitraggio di Michele Morrone e tutti gli allievi del Centro Sperimentale in tribuna). La nonna ricorre anche nelle storie di Simba La Rue, uno dei trapper più ascoltati dai ragazzi a Milano, vero nome Mohamed Lamine Saida, tunisino, che ricorda la sua antenata senza denti.
Simba è uno dei più rissosi di questi trapper, e qui siamo al cuore dell’identificazione maranza uguale trapper. Nato in Tunisia, emigrato in Italia col padre, poi metalmeccanico, poi arrestato per la prima volta, cacciato da scuola, carcere minorile al Beccaria, evaso, infine comunità, dove incontra Baby Gang, altro trapper ragazzaccio, nome vero Zaccaria Mouhib, da Lecco, infanzia da homeless, anche lui al Beccaria. I due sono protagonisti della “maxi rissa”, appunto, complicatissima, che li vede scannarsi tra loro e con un altro damerino, il rapper Baby Touché (nome d’arte di Mohamed Amagour, marocchino, di stanza a Padova, specializzato nel girare con pitbull al seguito, e pestare ai Pride). Seguono altre risse, piccola guerriglia urbana, che alimenta l’idea della Milano terminale e sudamericana. Loro dicono che è tutta una finta da postare sui social, i giudici ci vanno giù pesanti. Condanne esemplari. Altra fama e views. Nella notte milanese tutti i maranza sono neri.
Ma la rissa non è solo per le strade, ma anche e soprattutto sui social e in tv. I trapper sono infatti ambitissimi dai palinsesti: sono degli zarri da competizione, sono immigrati, parlano strano, compiono piccoli reati violenti amplificati dai testi che inneggiano al denaro, alle macchine tamarre, alla “droga”, direbbero in un salotto di Rete 4. Perché il retequattrismo, inteso come spettacolarizzazione di conflitti sociali con toni un po’ kitsch e camp, è la quarta parete del trappismo italiano. Cologno Monzese diventa quartiere maranza ad honorem. Dai borselli a Hoara Borselli, il trapper tamarro del resto costa poco e fa grandi ascolti, lo dimostra la regina delle maxi-risse televisive andata in onda nell’aprile del 2024 a “Dritto e Rovescio”. Protagonisti il conduttore Del Debbio e proprio Baby Touché. Che si fa cacciare non una, ma ben due volte dallo studio. Del Debbio gli dice che “ha rotto i coglioni”, lui chiama tutti “zio” e “zia”, una di Fratelli d’Italia e Dj Ringo al quale dà pure del mafioso, anzi del “Totò Riina”, dice di non essere mai stato rispettato da quando ha messo piede nello studio televisivo. Fischi, toni isterici, buttafuori Mediaset che portano Baby Touché via dallo studio “mentre gli autori in cuffia probabilmente sperano che questo momento duri in eterno”. Alla fine Del Debbio si scusa con i telespettatori: “Chiedo veramente scusa. Abbiamo raggiunto un livello di una bassezza totale. Mi scuso di aver invitato personaggi di questo tipo. Con questa arroganza, questo modo di fare così becero…”. Per l’auditel è un trionfo. Alla stessa ora va in onda un soliloquio della Meloni nel salotto di “Porta a Porta” su Rai 1 e gli ascolti sono spietati: vince Baby Touché, Tele Maranza batte Tele Meloni.
Sono irresistibili del resto le scene dei trapper redarguiti da Del Debbio, paterno, reazionario, un po’ Mario Brega col figlio fricchettone di “Un sacco bello” quando recupera Verdone hippie. Da Del Debbio abbiamo visto anche tale Josh di Zona 4, orgoglio dell’hip hop di Corvetto, e i giovani Khalid e Cialdina. Il clash culturale tra i conduttori in versione commendatore di famiglia e il maranza spaccone è tanto prelibato che tutti ne vogliono un pezzo. A un certo punto Mario Giordano ha scavalcato a destra Del Debbio e in una puntata di “Fuori dal coro” si è buttato in un dissing di sua creazione. “Bang bang bang / immagini di pistole e fucili / spaccio ripreso in diretta / scimitarre pasticche / milioni di visualizzazioni su internet / bang bang bang / altro che integrazione / dietro l’accoglienza c’è questo”.
Chissà se aveva l’autotune. Perché l’altra grande accusa contro i trapper è il trucco elettronico che distorce la voce, specie di viagra dell’ugola, che permette a tutti d’essere intonati. E così cresce il risentimento, questi non solo sono tamarri, e pure diciamolo, ne*ri, ma son pure stonati! Fanno i miliardi e si fanno le nostre ragazze senza saper nemmeno cantare! Secondo gli autori del libro è una battaglia di retroguardia, si vorrebbe infatti tornare a cantare come Claudio Villa, si vorrebbe rimanere fermi al bel canto, in un mondo in cui si pretende naturalità solo quando è artificiale, come un bel volto fresco di lifting (“Del resto la trap e la realtà sono come la ragazza che Tony racconta in ‘Miu Miu’, sua celebre canzone: naturale ma rifatta”).
L’Italia che viene fuori dalla ricognizione trappista non è né bella né brutta, anzi, forse bruttina, ma è abbastanza una fotografia interessante e vera, più di tante indagini sociologiche e dei romanzi con le nonne sapienziali sotto l’atavico carrubo, laggiù nella masseria al Sud. I trapper, sostengono gli autori, non inneggiano a nulla, semplicemente fotografano il reale così com’è, e dunque il desiderio di soldi facili, griffe e auto rombanti che ormai – accettiamolo – è il sogno di ognuno di noi, il maranza collettivo.
I testi sono misogini. I video stereotipati, tra armi, soldi, motorini e “bitch” che ballano. Ma è tutto parte del gioco: la trap è un’iperbole continua, una caricatura dell’ostentazione capitalista. E’ gangsta rap dopo la globalizzazione. E’ una riscrittura dello stereotipo, fatta da chi lo subisce. Come negli anni 80 nei film dei Vanzina, i maranza sono i nuovi Torpigna (e se l’equivoco per cui i Vanzina inneggiassero ai tamarri ci ha messo 40 anni per essere sciolto, impiegheremo lo stesso con la trap?).
Se c’è un capitolo che rimane irrisolto è quello però che riguarda le donne: se, a parte le amate nonne, ci sono le “bitch” e poco altro, per questi maschioni che magari poi nell’intimità saranno femministi e lettori di Vera Gheno e delle edizioni Tlon, forse qualcosa non quadra. Poche infatti le signore trapper: unica di un certo spessore, Anna (Anna Pepe, nata alla Spezia nel 2003).
Però, una grande femmina a ben guardare c’è, la grande antagonista femminile è la Deputata di Destra. Se il public enemy di questo mondo è Salvini, tutto manette e rosari (“Avranno tempo per comporre e per cantare,” aveva scritto il leader della Lega dopo la condanna di Simba e Baby Gang) ci sono carriere che crescono proprio grazie alla trap e spesso sono femminili. C’è la Grande Annullatrice di Concerti (maiuscole e nickname mio), l’eurodeputata di Fratelli d’Italia Elena Donazzan che era riuscita a dicembre 2024 a far cancellare i concerti di Simba La Rue e Niky Savage, già annunciati in due discoteche in Veneto. Poi c’è Silvia Sardone, appena nominata vice segretaria della Lega, esperta in dissing retequattristi anti maranza: nel 2024 accusa il trapper Mowgli “di averla minacciata e mandata a fanculo in un freestyle”. O dopo aver visto “Rondo” incontrare Beppe Sala a una manifestazione sul disagio sociale promossa dal prete di periferia Don Burgio, ha accusato il sindaco di Milano di aver accolto a Palazzo Marino “delinquenti”. Anche il marito della Sardone, il consigliere leghista Davide Caparini, ha girato un video musicale camminando per via Padova – altro set dell’allarme maranza milanese – con la chitarra in spalla mentre una voce generata con l’IA canta: “Per scrivere una canzone, devi insultare la mia nazione / Non è colpa della Sardone se sei un coglione”. Era meglio se usava l’autotune.
E la sinistra? Cade anche lei nel tranello (strano!). La cancellazione del trappismo è trasversale, ecco le fantomatiche “donne del Pd” contro il concerto del Circo Massimo di Tony. Però la sinistra dovrebbe studiarsi meglio il fenomeno. Intanto, perché si capisce pure che questi maranza sono meno maranza di quanto si pensi: tanti trapper tra i succitati fanno parte del collettivo Seven 7oo, che aiuta a salvare i ragazzi dalle strade; ma “Rondo” non parla volentieri del suo lavoro con don Burgio della comunità Kairos, perché se salta fuori che il trapper in realtà magari sostiene Sant’Egidio, fa pure la differenziata ed è abbonato a Internazionale o ad Avvenire, chiaro che crolla tutto.
E poi perché sono anche, quasi tutte, almeno quelle milanesi, storie di sottoproletariato, di riscatto sociale, anche molto commoventi. Simba La Rue nasce con questo nome per il cartone del Re Leone, e perché è cresciuto in strada, racconta l’interessato nel libro. Nato in Tunisia, in Italia studia fino alle superiori, poi è arrestato per la prima volta, cacciato da scuola, carcere minorile, evaso, infine comunità da don Burgio, dove incontra Baby Gang e insieme si salvano, con la musica.
Racconta anche che il carcere minorile è la cosa più tremenda che esista, in confronto quello normale è quasi un collegio. E’ scioccato dai ragazzi suoi coetanei che tentano di impiccarsi. Anche il trapper Paky si chiama così per “Pakartas, che in lituano significa impiccato. E’ legato a un lutto della famiglia di mio padre. Mio fratello si è impiccato e, dopo di lui, si è impiccato mio nonno. Se dovevo chiamarmi in qualche modo, doveva avere a che fare con questa cosa che mi ha segnato. La mia musica nasce da questo dolore e non potrebbe essere altrimenti”. Il libro riporta anche proprio quasi un appello: “La sinistra non può ripartire dalle periferie se non si diventa un po’ zarri, che è pure un’esperienza karmica, di crescita: una Chiara Valerio con le treccine in tuta Adidas, un Pif col borsello finto Gucci, un Damilano con gli occhialoni Versace. Anche se è lungo da spiegare, le periferie le ha inventate l’estrema sinistra degli anni ’70”.
Il rischio è che invece accada l’inverso, sia il trapper a diventare un intellettuale del Pd (o magari di Azione) coi tovagliati di Lisa Corti. Ecco per esempio la storia di Ghali, prima duro e puro (leggendario quando in tribuna autorità a San Siro durante un derby Milan-Inter apostrofò Salvini: “Cosa esulti? Ha segnato un ne*ro come me!”). Poi fa il suo appello pro Palestina a Sanremo, dopo aver cantato “L’Italiano” di Toto Cutugno, e il giorno dopo ci sono le scuse all’ambasciatore di Israele pronunciate da Mara Venier (sic). Infine, un pezzo sul Venerdì col cantante che va a bere un caffè con Michele Serra. Da cui si potrebbe azzardare una tripartizione delle fasi del trapper italiano: brillante maranza-solito stronzo. La fine, dobbiamo proprio dirla? Venerato autotune, vabbè.
Maranza è una parola antica: così venivano chiamati i tamarri a
Milano negli anni Ottanta. Il loro epicentro è nel capoluogo lombardo
Se i trapper milanesi sono di seconda generazione, quelli romani crescono nella Ztl (e prendono lezioni però di italiano come Tony Effe) Lerisseperstradamasoprattuttonei talk di Rete 4: memorabili quelle con
Del Debbio (battono pure la Meloni a “Porta a Porta” come ascolti) Nel mondo della trap ci sono poche donne, a parte le affezionate nonne e le “bitch”. Le vere antagoniste sono le deputate di Fratelli d’Italia