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Massimo L. Salvadori: la democrazia è in crisi e le classi politiche sono inadeguate
di Antonio Carioti
Oggi Massimo L. Salvadori riceve il premio Antonio Feltrinelli per la storia, conferito dall’Accademia dei Lincei. Si tratta del giusto riconoscimento per un impegno pluridecennale il cui prodotto più recente è il volume Da un secolo all’altro (Donzelli), che copre in una prospettiva globale il periodo dal 1980 ai giorni nostri. «Il libro — ci dice Salvadori — prende le mosse dalla svolta neoliberista che partì dalla Gran Bretagna di Margaret Thatcher e dagli Stati Uniti di Ronald Reagan. Ne derivò un’ondata che si diffuse nel mondo intero, per poi rafforzarsi notevolmente in seguito al collasso dell’Urss e del suo impero, che screditò quel sistema statalista, collettivista e dittatoriale».
Il crollo del regime che incarnava un’alternativa socio-economica al capitalismo fu un clamoroso successo dell’Occidente, non trova?
«Sì, ma fu accompagnato da un trionfalismo ideologico acritico e ingiustificato, per certi aspetti grottesco. In realtà, proprio quando l’Occidente ha vinto la guerra fredda e gli Stati Uniti si sono eretti a potenza solitaria, a guida del mondo sotto la protezione di Dio, il capitalismo ha rivelato profonde debolezze organiche».
Si era parlato di fine della storia.
«Francis Fukuyama sostenne che ormai si erano create le condizioni per una simbiosi felice tra capitalismo e democrazia, per cui il modello occidentale non avrebbe avuto più rivali di respiro planetario. Annunciò la fine di un’era conflittuale e l’avvento di una nuova storia pacificatrice. Non è andata così. La globalizzazione ha rivelato lati positivi, ma anche aspetti velenosi, accentuando le diseguaglianze proprio all’interno dei Paesi occidentali. Oggi, con il conflitto in Ucraina, stiamo vivendo una nuova guerra fredda. E il modello americano, che risultò vincente dopo il 1945, attraversa una profonda crisi, tale da far parlare, dopo l’assalto a Capitol Hill, di una guerra civile politica e ideologica in corso negli Stati Uniti».
Da studioso di storia della sinistra socialista europea, che futuro vede per le forze progressiste?
«Che cos’è la sinistra oggi? In Italia ci sono due partiti, Pd e M5s, che si presentano entrambi come progressisti. Ma non si capisce quale sia la loro analisi della realtà. I dirigenti chiacchierano molto in televisione, ma non appaiono in grado di guidare i processi politici, di definire i ruoli rispettivi dello Stato e del mercato dopo la fine dell’incanto neoliberista. Una crescita della sfera pubblica può essere auspicabile. Ma uno Stato accentratore e ficcanaso diventa un peso per la società. Il mercato certamente non va abolito. Ma se gli si lascia troppo spazio, finisce per costituire un pericolo politico, come osservava il compianto storico inglese Tony Judt».
Lei coglie pericoli di un’involuzione autoritaria in Occidente?
«Parto da una premessa. Storicamente al potere è stato sempre chiesto di indicare ai popoli una prospettiva e di mostrare la capacità di prendere decisioni per il bene della collettività. Oggi le democrazie liberali non appaiono all’altezza di questi compiti. E si avverte il fascino dello spettacolo offerto da Paesi guidati saldamente da un uomo forte, come la Cina di Xi Jinping e la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Invece l’Unione Europea resta una confederazione di Stati deboli e divisi, che non riescono ad affrontare i problemi dell’ambiente, dell’economia, della pace. Così in Italia oggi abbiamo un governo di ammiratori mascherati di Vladimir Putin e di ammiratori espliciti di Viktor Orbán. È una situazione preoccupante».
Non esagera con il pessimismo?
«Pessimismo e ottimismo per me si equivalgono, sono tentativi di interpretare il futuro a seconda del proprio temperamento. Non credo che i problemi siano insolubili, ma possono essere affrontati solo se l’opinione pubblica acquisisce gli strumenti per capirli, quindi viene informata adeguatamente. Nel Novecento i partiti erano utili scuole di educazione e partecipazione politica. E avevano alla loro testa leader di notevole statura, dotati di capacità progettuale, autori di scritti importanti. Penso ad Alcide De Gasperi, a Palmiro Togliatti, a Ugo La Malfa. Oggi domina la videocrazia denunciata per tempo da Giovanni Sartori: la gente s’informa attraverso i talk show, dove si chiacchiera a ruota libera e ci si esercita in risse verbali che rendono la discussione incomprensibile. Anche il Parlamento è pieno di personaggi che sembrano raccattati agli angoli delle strade».
È un problema solo italiano?
«No. Pensi alla guerra in Ucraina: gli attori più importanti hanno clamorosamente sbagliato i loro calcoli. Putin credeva di vincere rapidamente e non è andata così: si è scontrato con una efficace resistenza ucraina. Joe Biden a sua volta era sicuro che la Russia non potesse reggere le sanzioni dell’Occidente e anche lui è stato smentito».