Roma. Quest’anno la festa dei lavoratori sarà sicuramente piena di rivendicazioni, ma dovrebbe contenere uno spazio – anche piccolo – in cui i sindacati facciano un bilancio delle proprie analisi e azioni. Lo scorso Primo maggio il governo Meloni, con il decreto Lavoro, effettuò una corposa decontribuzione (6-7 punti percentuali) e modificò la disciplina dei contratti di lavoro a termine.
La Cgil di Maurizio Landini (e al suo traino la Uil di Pierpaolo Bombardieri) disse che le risorse erano insufficienti, sebbene un taglio del cuneo fiscale fino a 7 punti fosse superiore alle richieste del sindacato di pochi mesi prima. Con riferimento alle riforme dei contratti, il decreto Lavoro venne ribattezzato “decreto precarietà”: la norma che consente dopo 12 mesi la proroga dei contratti a termine per altri 12 mesi, ma solo con una giustificazione prevista dal contratto collettivo, venne definita un “insulto” ai lavoratori. Ma cos’è successo dopo un anno? Quante delle tetre previsioni di Landini si sono verificate?
L’Italia ha un mercato del lavoro forte come non mai: gli occupati sono arrivati alla cifra record di 23,8 milioni, con un tasso di occupazione al 62 per cento. Per giunta, il lavoro è diventato anche più stabile e meno “precario”.
Se prendiamo i dati di febbraio 2024, gli ultimi disponibili (in attesa di quelli di marzo che l’Istat rilascerà dopodomani), su base annua c’è stato un aumento degli occupati di 350 mila unità. E questo incremento è più che integralmente dovuto all’aumento degli occupati a tempo indeterminato: i dipendenti permanenti, infatti, in un anno sono cresciuti di 600 mila unità. Mentre i dipendenti a termine, i cosiddetti “precari”, sono diminuiti di 200 mila unità, così come sono diminuiti gli occupati indipendenti di circa 50 mila unità. Non solo il mercato del lavoro è cresciuto, ma è diventato più stabile. Ed è ancora molto robusto, dato che da quasi due anni – secondo l’Istat – il tasso di posti vacanti è ai massimi storici dell’ultimo decennio (2,3 per cento): vuol dire che le imprese cercano personale, ma fanno fatica a trovarlo. E quando lo trovano se lo tengono stretto: assumono con contratti a tempo indeterminato per evitare di affrontare in futuro nuovi costi di ricerca e selezione del personale.
Insomma, quello che si vede a distanza di un Primo maggio è l’esatto contrario della catastrofe preannunciata da Cgil e Uil. Ma la cosa più grave che è la situazione è anche l’opposto del mondo al contrario che Landini (mica Vannacci) continua a descrivere oggi. Il segretario della Cgil, infatti, continua a parlare di una precarietà dilagante, usando dati manipolati o malcompresi dell’Inps che considerano solo i nuovi rapporti di lavoro attivati invece della variazione netta. E sulla base di questa rappresentazione distorta della realtà ha avviato una raccolta firme per promuovere quattro referendum per abolire il Jobs Act (ciò che ne resta) e la precarietà.
Si tratta, in tutta evidenza, di un sindacato che da un lato si è chiuso in una sorta di negazionismo rispetto alla realtà del mercato del lavoro, e dall’altro si è lanciato in una campagna movimentista e politica che ha come obiettivo l’indebolimento del governo. E’ la strada che ha scelto la Cgil dal 2021 quando, dopo sette anni da quello contro il Jobs Act, indisse uno sciopero generale contro il governo Draghi. E se lo fece contro un governo di unità nazionale, figurarsi contro uno di destra guidato da Giorgia Meloni. Così, ormai, sono tre anni consecutivi – e, inevitabilmente, con questo quattro – che Cgil e Uil (ma non la Cisl di Luigi Sbarra) fanno scioperi generali. Proprio nella fase in cui il mercato del lavoro corre.
Ciò non vuol dire che tutto vada bene. Anzi. L’Italia è il paese Ocse dove, durante la fiammata inflattiva, i lavoratori hanno subìto la più forte perdita di potere d’acquisto: meno 9 per cento nel terzo trimestre 2023 rispetto al 2019. Il paradosso è che il mercato del lavoro va bene, mentre i salari vanno male. E per giunta, non potrà più essere lo stato a proteggere i salari a colpi di decontribuzione: i deficit fiscali al 7-8 per cento annui non sono più sostenibili e, con il ritorno delle regole fiscali europee, l’Italia dovrà costruire rapidamente un consistente avanzo primario per contenere un debito pubblico crescente.
Ma in questo quadro difficile si apre una finestra di opportunità. Perché siamo in una fase di rinnovi contrattuali: alcuni sono stati recentemente firmati (si pensi a quello del commercio), ma 4,6 milioni di dipendenti (il 35 per cento del totale) sono in attesa di rinnovo. Per giunta, il forte calo dell’inflazione e la crescita dei profitti acquisita nel triennio passato dalle imprese lasciano spazio per un importante recupero dei salari. E’ forse dei rinnovi contrattuali, più che dell’opposizione politica alla Meloni, che dovrebbero occuparsi i sindacati: avere come controparte i datori di lavoro più che il governo, magari chiedendo a quest’ultimo di agevolare i rinnovi.
Sulla rivista Eco, il nuovo mensile di economia diretto da Tito Boeri, è stata pubblicata una ricerca di quattro economisti – Agnolin, Anelli, Colantone e Stanig – che indica una crisi profonda del sindacato: il tasso di sindacalizzazione è in forte contrazione negli ultimi 20 anni. “L’Italia – scrivono i ricercatori – rischia di raggiungere i livelli di partecipazione sindacali più bassi dell’Europa occidentale, quelli della Francia, che ha sindacati agguerriti ma con bassa adesione tra i lavoratori”. E’ proprio la tendenza conflittuale e ideologica che la Cgil sta mostrando negli ultimi anni.
Una strada per recuperare adesioni è quella di occuparsi di più dei rinnovi contrattuali che dell’opposizione politica al governo. Sarebbe un modo per avvicinare al sindacato le centinaia di migliaia di dipendenti assunti con contratti stabili in questi anni e che sono entrati nel gioco della contrattazione collettiva. Soprattutto considerando che Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, è la prima forza politica tra i lavoratori.