Johnson clings on amid cabinet standoff and dozens of resignations
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7 Luglio 2022Un anno e mezzo fa l’Italia si è impegnata a spendere 220 miliardi del Pnrr (di cui circa due terzi presi a prestito) entro il 2027. Il governo ha rispettato le 45 scadenze per il primo semestre di quest’anno, sbloccando 24 miliardi, di cui la metà sovvenzioni a fondo perduto. È un fatto positivo di cui va dato atto al governo, ma non basta per assicurarsi che i soldi vengano spesi bene in futuro. Ci sono tre motivi per nutrire preoccupazioni al riguardo.
Manca ancora un monitoraggio pubblico e sistematico dell’esecuzione del piano. Non c’è traccia di una banca dati sulle gare effettivamente avviate, sulle aggiudicazioni, sulle opere di cui è stata iniziata l’attuazione, sui finanziamenti sin qui elargiti, su come procede il programma di assunzione di personale che dovrebbe contribuire all’abbattimento dell’arretrato nella riforma della giustizia civile, né sul numero e la qualità delle assunzioni nella Pubblica Amministrazione.
Secondo, in certi casi si fatica a reperire il personale necessario all’attuazione. L’Europa ci ha chiesto di destinare almeno il 20 per cento dei fondi alla transizione digitale e il 37 per cento alla transizione ecologica (abbiamo già espresso in passato le nostre perplessità a riguardo, ma questo è un altro discorso). Questo ci ha portato a concentrare le risorse su pochi settori: edilizia, elettronica e ottica assorbono quasi la metà dei fondi, e l’edilizia in particolare il 35 per cento. Quest’ultimo settore, dove già oggi si lamentano forti carenze di personale, dovrebbe assumere quasi 100.000 nuovi lavoratori; sono quindi necessari interventi massicci sulla formazione e politiche attive del lavoro. Purtroppo Anpal (ma non è una sorpresa, dato come è stata gestita dai governi passati e politicizzata da questo governo riportandola dentro al ministero) e Ministero del Lavoro si sono mostrati poco collaborativi. La struttura di Palazzo Chigi sta quindi lavorando indipendentemente su alcuni programmi sperimentali che dovrebbero essere lanciati a breve. Questa è una operazione cruciale, ed è fondamentale che abbia le risorse necessarie, e che sopravviva ad un eventuale cambio di governo dopo le elezioni. Lo stesso discorso si applica al settore Ict; già oggi il 50 per cento delle imprese italiane fatica a trovare esperti di Ict: immaginiamo cosa accadrà quando si dovesse passare davvero all’esecuzione dei megapiani di digitalizzazione.
Il terzo motivo di preoccupazione è la fretta nel progettare gli interventi e nello spendere i fondi, e il rischio conseguente che non ci sia una adeguata capacità di spenderli bene. Questo è un problema alla radice, nelle direttivedella Commissione. Nell’ubriacatura generale di un anno e mezzo fa, pochi sembrano essersi chiesti se avevamo le capacità di progettare in pochi mesi e di spendere in pochi anni risorse così ingenti, soprattutto a livello locale dove si concentra gran parte dell’azione. Questo problema era facilmente prevedibile, e ne parlammo su queste colonne già 18 mesi fa. In realtà, in moltissimi casi a livello locale non ci sono le professionalità per progettare e per bandire gare d’appalto, e non c’è stata l’indispensabile centralizzazione delle stazioni appaltanti. Inoltre la Pubblica Amministrazione ha perso negli ultimi anni personale dirigente soprattutto nel Mezzogiorno, che è chiamato a gestire il 40 per cento dei fondi. Vero che si sta ora procedendo ad assunzioni, ma essendo in molti casi assunzioni a termine (sia per la fretta, sia perché il Pnrr stesso è a termine), rischiano di attrarre candidati senza le competenze necessarie, e che non hanno incentivo ad investire tempo e energie nei compiti assegnati date le prospettive di carriera incerte.
Ma la fretta non è solo un problema di enti locali. Per esempio, come docenti universitari siamo testimoni di come si stanno attuando progetti nell’ambito dei cosiddetti partenariati tra atenei e aziende. In alcuni casi di cui abbiamo notizia il messaggio è stato “fate in fretta, mettete lavori che avete già fatto o che avreste fatto in ogni caso, e semplicemente date un titolo che abbia una qualche attinenza con il progetto”. Chi controllerà? Chi obietterà mai? Eppure questa è la definizione di “spreco”: un compenso per un lavoro che si farebbe in ogni caso, o che addirittura è già stato fatto, oltre che molto spesso inutile (chiedere alle aziende partner).
Il Pnrr potrà davvero favorire la ripresa della nostra economia se riuscirà a cambiare il modo con cui si selezionano, progettano e finanziano gli investimenti pubblici in Italia. Il governo ha in mano una leva potente per spingere i ministeri e gli enti locali a fare un salto di qualità: escludere dall’assegnazione dei fondi enti ed amministrazioni che non sono in grado di gestirli bene. Ma se l’attenzione del Parlamento e dell’esecutivo è solo sullo spendere in fretta, questa leva diventa un’arma spuntata. Cambiare i processi con cui si spendono i soldi pubblici è parte integrante del Pnrr. Il tempo speso nel favorire questo cambiamento non è un ritardo nell’attuazione del piano, ma è un passo concreto (e non di carta) verso la sua attuazione. Anche l’Europa sa che spendere male è peggio di non spendere.