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22 Maggio 2024di marcello Sorgi
Basta la parola, verrebbe da dire, ricordando il vecchio slogan pubblicitario di un lassativo. E stavolta è proprio bastata la parola – redditometro – per far saltare per aria la maggioranza di destra centro. Il responsabile, fin dal primo momento, è stato individuato nel viceministro dell’Economia, e padre della riforma fiscale, Maurizio Leo, che senza avvertire nessuno, neppure il suo ministro (Giorgetti), ha licenziato il 7 maggio il decreto ministeriale incriminato e pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale. Il bello è che il testo di Leo mirava a obiettivi opposti a quelli per cui è stato attaccato: ridurre il potere in base al quale lo Stato può controllare il rapporto tra redditi e spese effettive. L’esempio che viene fatto in questi casi è quello del quasi-nullafacente inspiegabilmente proprietario di due barche e una casa in montagna. Ed è la ragione per cui il governo gialloverde di Conte e Salvini aveva abolito il redditometro che Leo ha reintrodotto.
Ma il paradosso di questa storia non è solo il terremoto avvenuto nella maggioranza, a cui Meloni in persona ha cercato di mettere la sordina convocando Leo al prossimo Consiglio dei ministri per chiarire (oltre, c’è da presumere, per trovare il modo di neutralizzare il redditometro almeno fino ai risultati elettorali). Paradossale è anche la politica fiscale di un governo di centrodestra che le tasse dovrebbe provare a ridurle, che ha creduto di farlo con la prima tranche della riforma varata dallo stesso Leo, e adesso è alle prese con la necessità di rifinanziarla per quello successivo, dato che la legge di stabilità stanziava fondi solo per i primi dodici mesi. A questo quadro incerto s’è aggiunto ieri il redditometro, varato dal viceministro senza sentire prima i colleghi di governo, e soprattutto senza valutare politicamente cosa avrebbe potuto rappresentare il dibattito in campagna elettorale sul ritorno di questo strumento di controllo dei contribuenti. Lega e Forza Italia non hanno neppure aspettato che Leo chiarisse per saltargli addosso. E anche questo è indicativo di come, nell’approssimarsi del voto dell’8 e 9 giugno, la campagna elettorale si stia facendo sempre più dura e non distingua più tra alleati e avversari.