Con l’euforia e la spensieratezza con cui si ordina uno spritz (Campari, va da sé, come vuole la tradizione veneta), il ministro Carlo Nordio ha celebrato ieri la sua sedicente riforma della Giustizia diventata legge neanche fossero le tavole di Mosè. E c’è da comprenderlo nella sua vanità, a maggior ragione se dovesse rispondere al vero quello che da tempo si spiffera nei conciliaboli della maggioranza. E cioè che reso il servigio, potrebbe ora passare all’incasso della promessa della premier di issarlo su uno scranno di giudice costituzionale. Così come c’è da comprendere l’incredulità dei colonnelli di Forza Italia e Lega che neanche nei sogni più selvaggi del ventennio berlusconiano avrebbero immaginato di svegliarsi una mattina con un codice penale ripulito dall’abuso di ufficio e dal traffico di influenze e una nuova disciplina delle ordinanze di custodia cautelare che, nella sua farraginosità e illogicità, ne renderanno, di fatto, angusto, macchinoso e depotenziato l’uso. Oltre a far collassare definitivamente i nostri tribunali (i tre magistrati che decideranno dell’arresto o meno di un indagato non potranno prendere parte in nessun caso a nessuna delle fasi successive del procedimento). Sublime, in questo senso, l’enfasi retorica toccata dall’avvocato Francesco Paolo Sisto, viceministro della Giustizia, che scomoda, nientemeno, l’immagine di un “new deal” della Giustizia penale. Pari forse solo al richiamo di Antonio Tajani a Cesare Beccaria quale mentore di questa sciagurata legge.
Del resto, intestata come è alla memoria di Silvio Berlusconi, la sedicente “riforma” vale ben più di un aeroporto. Perché, in attesa di una prossima e annunciata stretta sull’uso e la durata delle intercettazioni, porta a compimento il progetto di una giustizia di classe disarmata con i forti e implacabile con i deboli, che è stato e resta il segno distintivo, nella sua declinazione giudiziaria, della lunga stagione berlusconiana e della nuova avventura della destra al governo. Indagare, perseguire e punire le responsabilità dei colletti bianchi, distinguere tra la sacrosanta discrezionalità dell’amministratore e del funzionario pubblico o del politico e i suoi abusi sarà semplicemente impossibile. Perché, per legge, irrilevante. Emanciparsi dal familismo patologico einterstiziale che soffoca e manipola il mercato e avvelena le libere scelte degli amministratori non sarà più affare del giudice penale. E se qualcuno farà traffico di influenze promettendo in cambio denaro o interessi privatissimi di pilotare le decisioni di una pubblica amministrazione in forza della sua rete di relazioni, del suo cognome, dell’appartenenza di partito, buon per lui e di chi ne sarà beneficiato. Con buona pace dei gonzi che credono alla libertà e trasparenza del mercato o all’imparzialità della pubblica amministrazione.
E tuttavia, su un punto conviene dare ragione al coro entusiasta di chi oggi celebra l’ennesimo scasso della nostra giustizia penale. Questo “new deal” ci rende davvero speciali.
Un caso unico in Europa. Da studiare. O, magari, da cui guardarsi. Perché in nessun’altra democrazia occidentale si è con più impegno, ossessione e costanza lavorato per grippare la macchina giudiziaria. A dispetto della ricerca della sua efficienza e del principio di uguaglianza che dovrebbe guidarla. In nessun altro Paese dell’Unione si è avuta l’impudenza di comunicare che si era deciso di violare i nostri obblighi internazionali in materia di lotta alla corruzione introducendo poi clandestinamente in un provvedimento di tutt’altra natura (il “decreto svuota carceri”) una toppa a colori (la riforma del peculato per distrazione) con cui potersi giustificare nelle sedi opportune e lontani dai riflettori della propaganda domestica. In nessun altro Paese il governo che annuncia una “riforma epocale” la chiosa con una nota in cui si legge testualmente: “Resta la possibilità di valutare in futuro specifici interventi per sanzionare, con formulazioni circoscritte e precise, condotte meritevoli di pena in caso di eventuali indicazioni Ue, ancora oggetto di elaborazione”.
Avanti così, dunque. E benvenuti nel Paese dove le tasse sono “pizzo di Stato”, il “redditometro” uno strumento degno della Stasi, l’abuso di ufficio e il traffico di influenze un insopportabile e ingiusto giogo su chi lavora per il bene del Paese, le intercettazioni uno strumento da comunisti. Ma dove, viva Iddio, la tolleranza è zero per i frequentatori di rave e chi si impicca in carcere (normalmente cittadini di serie B) è un incidente statistico. Il Paese di Beccaria, appunto.