Radiohead – Creep
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26 Marzo 2024Verso gli 80 anni All’Accademia La Colombaria il seminario sul mensile fondato da Calamandrei Da Levi a Pavese: una riflessione sul rapporto tra politica e letteratura. Per guardare al presente
di Roberto Barzanti
Il Ponte , la rivista fondata da Piero Calamandrei (1889-1956), cominciò a uscire nell’aprile del 1945. Dare uno sguardo al suo passato è la premessa per individuare un rinnovamento che, non disperdendo o tradendo l’ispirazione iniziale, sia in grado di analizzare e discutere i drammi di un presente per più versi difficoltoso e tragico. Come allora siamo di fronte a scenari di guerra che si credevano impensabili fino a pochi anni fa. Un’epoca nuova, della quale non è semplice individuare caratteri e finalità, si sta delineando.
Che senso ha occuparsi oggi di una rivista che nacque a tanta distanza dalle urgenze che ci assillano? Perfino nella parte meno consultata ed in apparenza meno contemporanea, quella letteraria, il mensile voluto dal grande giurista-scrittore ha concettualizzato criteri e suggerito svolgimenti fecondi. Non si tratta di riprenderli con pigra fedeltà, ma di coglierne le motivazioni e registrarne l’inevitabile declino. Ritengo che non sia evasivo occuparsi del linguaggio e della letteratura creativa come di quella giuridica o politica. Ritrovare un lessico comune è essenziale per chi voglia istituire un rapporto critico tra passato e futuro: una sfida alla cancel culture che ritiene si debba ripartire da zero, ignorando eredità delle memorie e forza dei sentimenti. Non è strano che Piero, nato scrittore e scrittore di sicuro stile anche quando si dedicava ai suoi impegni professionali, insistesse fino allo spasimo con il cortonese Pietrino Pancrazi (1893-1952), consigliere ascoltatissimo, nel sostenere che una rivista puramente letteraria non aveva senso e che i tempi chiedevano di esaltare, sia nell’aspra lotta politica che nella narrativa o nella testimonianza, nella poesia e nell’oratoria, una spiritualità distinta nei generi ma coerente nelle finalità. Giocava in lui una mai rinnegata formazione crociana, consapevole dell’autonomia propria del romanziere e della novella popolare: il primato da tenere a bussola di navigazione non poteva che essere la ricerca di una moralità intera e combattiva. Oggi non si tratta di recuperare canoni idealistici, ma di capire che i cambiamenti da affrontare devono coinvolgere la funzione della lingua e l’intelligibilità dei contenuti. Il dilagare di un immaginario falsificante e di artificiosi intrecci deve spingere a battersi contro il prevalere di una spettacolarizzazione che occulti la realtà o la soffochi con chiacchiere che degenerano in banalizzante intrattenimento. Le parole devono riacquistare l’asciuttezza dei punti più alti di un patrimonio da non deprezzare. Insieme a Corrado Tumiati (1885-1967) Calamandrei accordò molto spazio a opere memoriali, nelle quali si saldavano vita e scrittura. E non per ossequio ad un neorealismo di maniera. Chi proseguì, dopo il terribile ’56, il lavoro intrapreso avrebbe lanciato tendenze ardite: aprire ad una Weltliteratur , che significava letteratura europea e indagare Paesi e regioni per definirne un’identità da rispettare, nascosta dal regime fascista dietro antagonistici nazionalismi o folcloristiche paccottiglie. A far la lista dei collaboratori vien da stupirsi di quella sorta di canone che la rivista ha avuto a sua marcata cifra. Il primo numero pubblicò capitoli del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Storici come Luigi Russo e Attilio Momigliano anticiparono l’acuto saggismo che alla lunga avrebbe prevalso sui testi di invenzione. Eugenio Montale è presente con due poesie, malgrado la condanna dell’ermetismo dichiarata da Calamandrei senza mezzi termini fin dal programma. Indubbiamente circolò alle origini un afflato neorisorgimentale, carducciano, che provocò limiti. Ma spunta (nel 1947) Carlo Emilio Gadda con un Interno romano 194 1, che innesta a sorpresa il suo estroso e barocco plurilinguismo nel cenacolo che amava modelli allineati ad un’artigianale e ordinata sintassi, sia nei toni favolistici (Collodi) che nei trattati scientifici (Bartoli).
È risaputa l’enorme ammirazione che Calamandrei nutriva per Pavese, confessata, a lettura appena conclusa di La luna e i falò , in una lettera indirizzata allo scrittore in data 14 agosto 1950: «Questa è grande arte e poesia vera: di fronte a pagine come queste, dove il dolore della vita è filtrato attraverso la serena contemplazione del ricordo, le polemiche sui fini dell’arte e sulle relazioni tra arte e politica non hanno più senso». Quasi un epigrafe del canone sotteso alla letteratura più amata dal Ponte . Emilio Lussu, ricordando Carlo Rosselli (n.6, 1947) inneggiò a una fusione tuttora da compiere: «Il socialismo si fa liberale? Il liberalismo diviene socialista? L’una e l’altra cosa insieme. Due visioni altissime, ma unilaterali dell’umanità tendono a compenetrarsi a vicenda». Nel saluto (n. 6, 1955), in coincidenza dell’ottantesimo compleanno, a Thomas Mann Calamandrei sintetizzò indirettamente l’approdo ideale — non ideologico, né partitico — cui era pervenuta la sua rivista e val la pena citare la parole di Mann per dissipare controversie prive di senso: «Il motto di Goethe, quando, verso la fine della sua vita, dichiarava che ogni uomo ragionevole è in sostanza ‘un liberale che si è moderato’, significa oggi: ‘ogni uomo ragionevole è un socialista moderato’. Ma io non ignoro che è precisamente il “socialismo moderato”, quello che si tempra di spirito umanitario, il socialismo liberale che più esecra il comunismo totalitario».
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