Giace in coma profondo Armita Geravand, 16 anni, su un letto di ospedale, dopo un probabile pestaggio per non aver rispettato il copricapo islamico. I servizi di sicurezza della Repubblica islamica assediano la città di Zahedan per sedare le manifestazioni popolari che continuano da un anno dopo la fine della preghiera del venerdì. I nuovi gruppi di pressione, forti della nuova legge sull’hijab, si organizzano per fermare le donne svelate e costringerle a obbedire.

Un sussurro di malessere attraversa l’anima dei giovani che rifiutano di vivere nelle obsolete regole dell’Islam politico. Le carceri palpitano di oppositori imprigionati a seguito di accuse inflitte da un sistema giudiziario corrotto e accondiscendente al potere. Tra le migliaia di questi prigionieri politici, Narges Mohammadi forse è la figura più nota.

IL COMITATO norvegese del Premio Nobel ieri le ha riconosciuto il Nobel per la Pace per la sua attività in difesa dei diritti umani e l’opposizione al potere dominante. Il calvario di Mohammadi è cominciato 14 anni fa, quando per la prima volta fu arrestata con l’accusa di essere membro del Centro dei Diritti umani che difende i diritti delle donne. Da allora è stata più volte rilasciata e incarcerata. Nata nel 1971 a Zanjan, frequenta la facoltà di fisica applicata e contribuisce a fondare l’organizzazione «Studenti illuminatori».

Comincia l’attività giornalistica nel 1996. Nel 2006, mentre cresceva il pericolo di un attacco militare contro l’Iran in risposta al suo programma nucleare, viene costituito il Comitato nazionale per la Pace a cui Mohammadi aderisce. Negli ultimi dieci anni è diventata una delle voci critiche più esplicite del governo della Repubblica islamica. Precedentemente era nota soprattutto per il suo monitoraggio della situazione dei diritti umani.

Diviene attiva nel Comitato come capa esecutiva, oltre a essere operativa nel Centro per i Difensori dei Diritti umani. In seguito lavora alla campagna «Abolizione delle esecuzioni passo dopo passo», nota come «Lega». Negli ultimi anni, Mohammadi ha dato un tono più tagliente alla sua attività adottando posizioni come «la necessaria transizione dal governo della Repubblica islamica e dalla tirannia religiosa» e «il divieto delle elezioni».

È una dei 15 attivisti politici e civili iraniani che considerano il governo iraniano «irriformabile» e che hanno chiesto che si tenesse un referendum sulla permanenza della forma attuale dello Stato sotto la supervisione delle Nazioni unite.

NEL FEBBRAIO 2018 aveva anche chiesto al popolo iraniano di non partecipare alle elezioni politiche «in onore del sangue delle persone uccise» pochi mesi prima. Mohammadi ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui il Premio Sakharov dell’American Physical Society nel 2018, il Premio Alexander Langer nel 2009 e il Premio per la Giornata mondiale della libertà di stampa nel 2016.

Ha sposato Taghi Rahmani, un attivista nazional-religioso ed ex prigioniero politico che ha trascorso più di 14 anni in prigione negli anni successivi alla vittoria della rivoluzione del 1979. Dopo essere stato costretto a lasciare il paese e conseguentemente all’arresto di Mohammadi, la condizione dei loro due gemelli è diventata così difficile che a loro volta sono stati costretti a espatriare.

Il Nobel va oltre e premia, in realtà, il movimento «Donna Vita Libertà» e Mohammadi come sua leader. La reazione della Repubblica Islamica è prevedibile. Quasi sicuramente verrà detto che è una «questione politica» e che hanno premiato Mohammadi come leader dei ribelli contro lo stato islamico. Cambiare il rapporto di causa ed effetto è la politica permanente e il segreto della vittoria temporanea della Repubblica islamica sui manifestanti e sugli oppositori.

Ma probabilmente questa volta non funzionerà. Dopo il vincitore cinese del 2010, Liu Xiaobo, Mohammadi è la seconda persona a essere insignita del premio da prigioniera in carcere. Significa che è difficile confinarla. D’altra parte, il movimento «Donna Vita Libertà» presenta segni vitali che hanno un’influenza importante sulla Repubblica islamica, soprattutto sui media e nei social network.

PROBABILMENTE il governo non può vendere la sua narrativa al pubblico. Narges Mohammadi secondo molti è il nome più degno di questo premio e di questa leadership. Anche al di là della mobilitazione delle donne, Mohammadi ha un posto stabile e affidabile nella guida del movimento di protesta iraniano contro la Repubblica islamica.

In passato, in un’intervista Rahmani aveva detto: «Narges Mohammadi, mia moglie, è un’attivista per i diritti umani. Ha già scontato sette anni di prigione e ora ne deve scontare altri otto e mezzo. Anche in prigione sostiene la lotta del popolo iraniano e lo considera il suo dovere. Molti altri attivisti per i diritti umani sono in prigione, persone come Kivan Samimi, Saeed Madani, Mostafa Nili, Hassan Younisi…sono avvocati, sociologi e scrittori. Il sostegno internazionale aiuta il popolo iraniano e il suo movimento, ci si aspetta che la comunità internazionale sostenga le proteste popolari e sia al fianco del popolo iraniano».