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5 Settembre 2022Come in un romanzo russo la realtà e la letteratura si inseguono e si danno il cambio anche in questi anni di disincanto senza nome, quando tutto sembra tornare indietro, alle pulsioni e alle emozioni primitive. Quella fotografia che ritrae insieme Mikhail Gorbaciov nella bara scoperta, finalmente in pace nel lenzuolo ricamato dopo una vita di battaglie e di rimpianti, e Vladimir Putin che gli rende un omaggio riluttante, è in realtà un’istantanea del potere che fissa un ritratto di se stesso in una fase delicata di trasformazione, un’immagine che tenta di violare il mistero del comando, e dunque spiega ciò che i comunicati ufficiali del Cremlino non dicono.
Tutto apparentemente è ambiguo. Il popolo ha dimenticato Gorbaciov, dopo che il Cremlino lo ha azzerato politicamente, e lo considera responsabile con Eltsin della “vendita” dell’Unione Sovietica all’Occidente. Anzi, a Eltsin i russi perdonano ormai persino la corruzione, mentre Gorbaciov nella memoria è ancora accusato di subalternità volontaria all’Ovest che lo applaudiva, dimostrando che il mondo accetta di fare i conti con l’orso russo soltanto quando è addomesticato, e balla alla sua musica. E tuttavia la cornice della veglia pubblica è quella solenne della Sala delle Colonne, dove milioni di cittadini sovietici sfilarono nel marzo 1953, dopo essersi calpestati nella coda interminabile in strada, per l’ultimo saluto a Josif Stalin, il “padre dei popoli”; e dove si erano svolti i processi più famosi degli anni del “terrore”, a Bukharin, Rykov, Kamenev e Zinovev. Niente funerali di Stato, ma un picchetto d’onore in uniforme. E infine, la presenza-assenza di Putin, che non partecipa alle esequie ma il giorno prima rende visita all’ultimo Segretario Generale del Pcus, entrando con il suo imbarazzo dentro quella fotografia che lo coglie mentre si sta sistemando la giacca, solo davanti alla salma, di fianco a un mazzo di rose rosse e a un grande ritratto di Gorbaciov negli anni del potere.
Tuttavia questa incertezza di un rito a metà non nasce dalla confusione, ma al contrario da una scelta precisa: è il tentativo di separare il corpo dell’ex sovrano dalla suapolitica, il ruolo dagli effetti che ha prodotto, e anche Gorbaciov dalla platea che più lo ha sostenuto, l’Occidente.
Putin è in sintonia col suo popolo nel rifiutare la fine dell’Unione Sovietica, considerandola “la più grande tragedia politica del secolo”, e dunque respinge in blocco la stagione gorbacioviana proprio perché ha indebolito la dimensione imperiale, necessariamente autonoma, inevitabilmente antagonista del Paese, nel passaggio rischioso dall’Urss alla Russia. Ma nello stesso tempo non può lasciar affondare nella fossa del cimitero di Novodevichij, insieme con la bara di Gorbaciov, anche la maestà dell’ultimo Segretario Generale e di tutta la stagione bolscevica, la Grande Epoca. Non è dunque l’uomo dellaperestrojka e della glasnost che Putin saluta in quella fotografia, ma il Gensek che guidava il Politbjuro, comandava sui Paesi dell’Est e, inchinandosi ad ogni Ottobre alla mummia eterna di Lenin custodita nel mausoleo sulla Piazza Rossa, testimoniava un principio di alterità, di differenza e di separazione della natura stessa del potere russo rispetto alla cultura occidentale.
Con la visita di Putin l’anomalia del Gorbaciov riformatore viene rimossa, restituita a una parentesi nell’arco sovietico dei settant’anni. Riemerge l’anima russa eterna, consustanziale alla missione imperiale di Mosca, impersonata prima dai Gran Principi guerrieri, poi per trecento anni dagli Zar, quindi dal comunismo fatto Stato: e oggi, dopo una pericolosa latenza col Paese frastornato e alla deriva nell’orizzonte provvisorio dell’indistinto semi-democratico, quell’anima e quella missione trovano al Cremlino in Putin un nuovo interprete che riscrive la storia, allinea le epoche, traduce infine in fatti concreti tutto quel deposito di responsabilità, promesse, obblighi, velleità che prende forma addirittura in un nuovo modello di civiltà. È l’idea di una frattura con l’Europa e l’Occidente, con la Russia che rifiuta la democrazia e i principi liberali, rifugiandosi nei fondamenti bizantini dell’identità slava, l’Ortodossia e l’Autocrazia, nell’autocoscienza di una superiorità del suo popolo, per Dostoevskij “l’unico portatore di Dio”.
Nulla di più lontano da Gorbaciov, dalla sua politica del disarmo e dalla sua teoria della convivenza pacifica, dalla sua rotta progressiva verso la sponda della democrazia dove non riuscì mai ad arrivare, protagonista di una grande incompiuta, che però ha rimesso in movimento il secolo.
Adesso, dopo aver distinto e separato ogni lascito ereditario, Putin può congedarsi definitivamente dalla figura dell’ultimo leader sovietico e dal suo invito alla Russia, nei giorni del golpe, a “rendere irreversibile l’integrazione di questo sconfinato Paese nella comunità degli Stati civili, qualunque sia il prezzo da pagare, comunque più basso del costo della contrapposizione”.
Putin ha ormai scelto la direzione opposta, antidemocratica e anti europea, e per questo ha evidentemente interesse a rompere il fronte a Ovest, suscitando dovunque è possibile focolai di dubbio e di obiezione, che nella loro vera sostanza sono riserve sulla democrazia. Il fatto nuovo è che proprio l’Italia, se si profila la vittoria elettorale della destra, rischia di essere la principale terra di sperimentazione di questo dubbio occidentale.