L’articolo del filosofo Federico Zuolo sugli scandali che fanno più male alla sinistra che alla destra ha molti pregi, il più notevole dei quali è l’onestà. Per spiegare l’asimmetria, l’autore svela una verità in un certo senso ovvia ma che raramente si è disposti ad ammettere, espressa in questo passaggio: «Mentre la sinistra, se e quando parla, lo fa a nome di princìpi, seppur impalliditi e deboli, la destra non ha remore nel rivendicare esplicitamente la tutela di interessi specifici».

Ecco la radice della differente reazione che si produce nei due fronti quando emerge qualche magagna: a sinistra scatta immediatamente il processo morale, perché quella parte si muove nel mondo dei princìpi e dei valori, si potrebbe dire nel regno dell’universale e dell’assoluto, e perciò una caduta assume la gravità del tradimento di un dogma secolarizzato, con le relative secolarizzate scomuniche.

A destra ce la si cava invece con una scrollata di spalle o una sghignazzata, perché nessuno da quelle parti ha mai pensato di farsi portavoce di un qualche valore eterno, contentandosi di trafficare nei bassifondi degli interessi di parte, dove c’è ben poco da tradire.

Insomma, la percezione dello scandalo varia in funzione della qualità delle pretese che le parti accampano, dove la questione decisiva è proprio la distinzione qualitativa.

Zuolo infatti non dice che la sinistra propone questo e la destra propone quest’altro, in una paritaria competizione fra offerte politiche, ma nota che le due parti abitano in galassie distinte, una nobile e astratta, l’altra impura e terragna.

Non si discute qui la pertinenza della valutazione storica – che le dinamiche che Zuolo descrive siano effettivamente in atto è plausibile – ma l’idea di fondo su cui si poggia il ragionamento ha un che di problematico. Se la scelta fra due parti diventa un bivio fra principi universali – per definizione buoni e giusti – e interessi di parte – per definizione biechi e particolari – non è una vera scelta, è un ricatto.

Chi voterebbe il Partito del Vizio quando il suo concorrente è il Partito della Virtù? È infatti ricattatoria l’idea che la sinistra (o qualunque parte politica, non importa) sia interprete di valori eterni e gli altri giochino a un altro e più misero sport, e questo a prescindere dalla coerenza dei comportamenti dei suoi interpreti.

I conservatori americani di un’altra epoca avevano tratto da Eric Voegelin uno slogan elettorale molto sofisticato e sicuramente poco efficace nel raccogliere voti: “Non immanentizzate l’eschaton!”. L’idea era che l’orizzonte dei valori eterni che i democratici volevano realizzare nella storia, traducendo con strumenti politici le promesse eterne della fine dei tempi, avrebbe portato molti guai, perché assoluto e assolutismo sono parenti, e anche abbastanza stretti.

MINIMALISMO DEMOCRATICO

L’alternativa è quello che il brillante politologo Shadi Hamid in un suo recente libro chiama «minimalismo democratico», cioè una concezione meno ambiziosa della dialettica democratica, dove nell’arena del confronto competono portatori di interessi particolari dotati di uguale legittimità e sottoposti a regole accettate di comune accordo.

Zuolo nella chiusura del suo articolo invita la sinistra a fare una correzione in senso realista, intrecciando «il linguaggio dei princìpi con quello degli interessi», ma non è un invito a sporcarsi con la realtà, diciamo così, soltanto a dimostrare che «i principi giusti, se ben applicati, difendono interessi sacrosanti e non solo di parte».

Non è chiaro, tuttavia, nell’ambito di una democrazia pluralista dove convivono diverse concezioni della vita buona, chi stabilisce quali sono i principi giusti e, pertanto, gli interessi sacrosanti. La polizia morale?