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Quando Stalin lasciò il Bol’šoj a metà spettacolo e la “Pravda” scatenò la campagna contro Šostakovič, inaugurando una nuova forma di censura che avrebbe segnato generazioni di artisti Così un giudizio politico trasformò l’estetica sovietica e definì il “formalismo”
Il 26 gennaio 1936 Stalin andò a teatro. Al Bolsoi in cartellone c’era Lady Macbeth nel distretto di Mcensk. L’opera di Dmitrij Šostakovič aveva debuttato due anni prima a Leningrado ed era stata subito un successo, venendo replicata centinaia di volte in tutta l’Unione Sovietica e sbarcando nel 1935 anche negli Usa, con esecuzioni a Cleveland, New York, Filadelfia. La rivista “Sovetskaja muzyka” la definì «il capolavoro della creatività sovietica» e i funzionari del Pcus esaltarono Šostakovič come «un compositore sovietico cresciuto nella migliore tradizione della cultura sovietica». Stalin andava spesso all’opera. La settimana precedente aveva visto Il placido Don di Ivan Dzerzinskij. Il “piccolo padre” aveva convocato l’autore al proprio palco per complimentarsi e per proclamare che l’opera sovietica doveva «fare uso di tutti i più recenti artifici della tecnica musical, ma il suo linguaggio doveva restare vicino alle masse, chiaro e accessibile». Šostakovič, allora 29enne e già enfant prodige, forse non si avvide del campanello d’allarme, ma certamente si accorse del fatto che Stalin, trascinando con sé Molotov, Mikojan e Zdanov, se ne andò al terzo atto. La serata fu un successo di pubblico ma il compositore apparve a raccogliere gli applausi, dicono i testimoni, «bianco come un lenzuolo», e uscì da teatro – come raccontò egli stesso – «con la morte nel cuore».
Due giorni dopo appare sulla “Pravda” un articolo di fondo non firmato ma che non poteva non essere che diretta emanazione del segretario generale del Partito Comunista sovietico. Il titolo è entrato nella storia: «Caos anziché musica». L’anonimo estensore bollava la sua Lady Macbeth non solo sotto il profilo artistico ma quello morale: l’opera è «rozza, primitiva e volgare», una «cacofonia » di «musica nervosa, convulsa e spasmodica». Esattamente il contrario della “buona” musica popolare: «Con lo sviluppo culturale generale del nostro Paese è cresciuta anche la necessità di buona musica […] Il popolo si aspetta buone canzoni, ma anche buone opere strumentali e buone opere». Non solo la protagonista, ma la stessa opera appare emblematica della perversione del gusto borghese reazionario:
era stato Andrej Zdanov, nel 1934, a teorizzare con il “realismo socialista” una produzione estetica improntata all’otti-mismo delle conquiste proletarie e rivoluzionarie, tutto il contrario della materia inquietante e ribollente dell’opera. Da qui l’accusa di «formalismo » verso questa musica, che implicava l’assenza nel compositore di una coscienza di classe. Non bastava che l’autore stesso motivasse la scelta del soggetto come antikulako, il cui scopo era «suscitare un sentimento d’odio contro l’atmosfera tirannica e umiliante che regna nella casa di un mercante russo». Per l’anonimo della “Pravda” l’obiettivo di Šostakovič era solo «creare originalità attraverso una pagliacciata da quattro soldi. È un gioco di ingegnosità che può finire molto male». Una minaccia tutt’altro che metaforica. Il Terrore staliniano era imminente, e molti furono gli intellettuali e gli artisti che scomparvero nella notte del gulag, in gran parte senza più tornare. L’opera venne di fatto ritirata dalle scene, le commissioni per Šostakovič crollarono insieme ai suoi redditi. Il compositore annullò, dietro “consiglio” dell’Unione dei compositori sovietici, la prima della ambiziosa Quarta sinfonia, troppo mahleriana, e avviò la composizione della Quinta nel rispetto – o nel simulato rispetto, la questione in Šostakovič resta sempre aperta – dei nuovi canoni. Presentata alla fine del 1937 a Leningrado, fu accolta da un successo ufficiale e nello scontento dei resistenti (Osip Mandel’štam la descrisse come una «fastidiosa intimidazione »). Il Pcus affermò che Šostakovič aveva «riconosciuto i suoi errori». Il compositore venne così riabilitato: prima vittima esemplare e ora esemplarmente pentito. Ma a che prezzo? La vicenda avrebbe segnato per tutta la vita il compositore, scisso tra il ruolo di codardo campione del regime, la volontà di preservare la propria identità musicale e senso di colpa; una dimensione tragica magnificamente raccontata da Julian Barnes nel suo romanzo Il rumore del tempo (2017).
Quella caduta su Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk è una censura di nuovo tipo, in cui il potere non si limita più ad avvalersi o controllare l’arte ma, come scrive Alex Ross, «la politicizza con mezzi totalitari». La censura è sempre esistita, ma nella storia si era sempre limitata a interessarsi ai temi, non alla forma: come è noto, non di rado era bastato che si cambiasse ambientazione e nomi perché un’opera ricevesse il visto. Ora invece il censore scendeva direttamente sul piano del linguaggio. Comunismo e nazismo trasformarono le categorie storiche di ordine, armonia, semplicità in precetti estetici metastorici (a ben vedere un principio propriamente novecentesco, non solo totalitario, che scatta ogni volta che si invoca il totem della tradizione). I compositori, e con loro tutti gli artisti, dovettero adattare la loro attività a contenuti prestabiliti e a norme estetiche e soggette a interpretazione (pochi giorni dopo Caos anziché musica la “Pravda” pubblicò un’altra stroncatura di un balletto di Šostakovic sulle fattorie collettive, Chiaro fiume, questa volta accusato di essere «troppo semplice»), ma che certamente limitavano la libertà creativa. Con un processo inverso a quello che di solito lega biografia e opera, tutto questo ricadde sulle vicende esistenziali di almeno due generazioni di compositori: non solo Šostakovic ma anche l’ultimo Prokof’ev (che non fece a tempo a vedere il post-stalinismo, essendo morto una manciata di minuti prima del dittatore il 5 marzo 1953) o figure note come Aram Khacaturjan. Dietro le loro pagine aleggia la paura: di un colpo secco alla porta, di una visita notturna. «La paura che accompagna la scrittura di un verso – disse Nadežda Mandel’štam – non ha nulla a che vedere con la paura che si prova in presenza della polizia segreta. Il nostro timore reverenziale di fronte all’esistenza in se stessa è sempre sopraffatto dalla paura più primitiva della violenza e della distruzione».





