La felicità è un tema politico? Abbracciare questo tema può consentire alla sinistra di allargare il suo declinante consenso? Sono le questioni che Gabriele Segre ha posto in un recente articolo su questo giornale che parte dal profondo malessere dei nostri cittadini descritto dal recente rapporto Censis. I risultati degli studi sulla felicità indicano una risposta positiva a entrambe le domande.
Questi studi, diffusi in tutte le scienze sociali da oltre un trentennio, hanno messo in rilievo che il fattore dominante per la felicità è la qualità della vita condivisa ed essa è fortemente influenzata dalle scelte politiche. Le cose che condividiamo, come le relazioni umane e la qualità degli ambienti naturali e costruiti in cui viviamo hanno un impatto dominante sulla nostra felicità.
Ed è proprio il loro degrado che spiega le tendenze negative della felicità nei paesi industriali, dove fette consistenti della popolazione sono gravate da crescente malessere, stress, pessimismo, frustrazione, ansia, depressione, disturbi mentali, oltre a un caleidoscopio di dipendenze che spazia dalle droghe agli psicofarmaci, dal gioco d’azzardo alla pornografia, ai social media ecc.
SCELTE POLITICHE
Il motivo chiave di questa infelicità è che veniamo da decenni di erosione delle relazioni umane. In occidente la solitudine si è trasformata in un problema di massa, a cominciare dalla solitudine infantile. Qualche generazione fa i bambini crescevano giocando all’aperto e in gruppo, adesso crescono in casa davanti agli schermi, perlopiù da soli.
Dalle avventure reali sono passati a quelle digitali. Oppure si pensi alla solitudine degli anziani, che fino a qualche decennio fa erano immersi in una fitta rete di relazioni sociali. La solitudine pesa sui bilanci delle famiglie. Abbiamo bisogno di eserciti di babysitter per bambini che hanno perso ogni autonomia. Cerchiamo di riempire il vuoto delle loro vite con una alluvione di giocattoli.
Gli anziani soli hanno bisogno di badanti. Molte persone di mezza età vivono ormai vite stressanti perchè schiacciate dalle esigenze economiche e di tempo generate dalla solitudine dei loro genitori e/o figli.
Questa situazione è in buona misura il prodotto di scelte politiche che possono essere cambiate. La solitudine urbana è stata ampiamente generata dall’impatto delle auto sul tessuto sociale. Esso si è sempre formato negli spazi condivisi, le strade e le piazze. Poi sono arrivate le macchine, che hanno reso tali spazi rumorosi, inquinati e pericolosi.
Un celebre urbanista sostiene che non si può mettere a proprio agio contemporaneamente le auto e le persone nelle città. La scelta che hanno fatto le città italiane privilegia le auto ma può essere cambiata. Molte città nord-europee ma anche metropoli come Tokyo indicano la ricetta di questo cambiamento: spazi verdi, centri sportivi, spazi pedonali, forti limitazioni al traffico privato, mobilità basata su trasporti pubblici e biciclette.
PIÙ STRESS
Per quanto riguarda la scuola, essa è interamente focalizzata su di una accezione restrittiva dello sviluppo delle capacità cognitive e dovrebbe essere radicalmente ripensata al fine di fornire una formazione emotiva e relazionale, che attualmente scoraggia.
Questo non implica alcuna rinuncia alla formazione di individui produttivi. La scuola attuale è inadeguata per la formazione di capacità creative e relazionali che sono fondamentali in una economia sempre più post-industriale, basata sulla conoscenza, sull’innovazione e la creatività.
Le ricerche mostrano inoltre che la soddisfazione per il nostro lavoro è una componente fondamentale della soddisfazione che proviamo per la nostra vita. La soddisfazione per il lavoro dipende fortemente dalla qualità delle relazioni che sperimentiamo in tale ambito e questa a sua volta è fortemente influenzata dalla organizzazione del lavoro.
La tendenza di quest’ultima negli ultimi 30 anni ha completamente trascurato questi aspetti, dato che è stata guidata dalle seguenti parole d’ordine: più stress, più incentivi, più competizione, più pressione, più controlli. Questa organizzazione del lavoro non produce né relazioni migliori, né lavoratori felici, né più produttivi. Infatti molti studi documentano una forte correlazione tra produttività e benessere dei lavoratori. Gente più soddisfatta lavora meglio, compie meno errori ed è più efficace come risolutrice di problemi.
È dunque possibile coniugare benessere e produttività lasciando spazio a modelli organizzativi che facciano più ampia leva sulle motivazioni non monetarie e su una maggior flessibilità che faciliti l’equilibrio tra vita a lavoro.
SALVARE LE RELAZIONI
Queste innovazioni avrebbero un impatto positivo sulla salute. Gli studi epidemiologici mostrano che la solitudine e l’infelicità sono fattori di rischio cruciali per la salute, sia fisica sia mentale. Le politiche precedentemente indicate, mirate a proteggere benessere e relazioni, dunque sono una potente forma di prevenzione sanitaria e un modo di rendere sostenibile la spesa sanitaria.
L’importanza della qualità della esperienza relazionale nel determinare il benessere degli individui pone in nuova luce la contrapposizione tra stato e mercato che ha attraversato tutto il Novecento. Tale contrapposizione appare fuorviante perché la parte fondamentale del benessere non viene fornita né dallo stato né dal mercato, ma dalle reti di relazioni sociali.
Esse sono importanti per il benessere sia perché hanno un impatto diretto su di esso sia perchè facilitano la cooperazione per scopi economici tra gli individui. Il problema del Novecento è stato che abbiamo avuto troppo mercato e troppo stato, e quella che c’è andata di mezzo è stata la società.
In altre parole stato e mercato sono stati usati per distruggere la società anziché per svilupparla. Infatti il punto importante è che, sia lo stato sia il mercato, possono fornire importanti contributi alla formazione e sostenibilità delle reti di relazioni oppure possono ostacolarla. Il loro impatto sulle relazioni dipende da come stato e mercato sono usati e dal mix prescelto. Gli studi sulla felicità possono fornire una guida efficace in questo tipo di scelte.
RIPARTIRE DALLA FELICITÀ
In conclusione gli studi sulla felicità sono un terreno molto fertile per l’innovazione delle agende politiche. La felicità è un criterio di organizzazione della società che non viene normalmente considerato nelle scelte sociali. Una buona parte della spiegazione del perché l’attuale sistema economico e sociale non produce individui più felici è che non è fatto per questo.
I criteri che prevalgono sono altri. Dato che la felicità dipende pesantemente dalla qualità di ciò che condividiamo, la candidata naturale ad abbracciare questo tema è la sinistra perché è storicamente molto più sensibile della destra al tema dei beni comuni.
Tra le sue parole d’ordine la sinistra dovrebbe includere: qualità urbana, qualità delle relazioni umane, qualità del lavoro, qualità dell’ambiente, qualità del cibo, e anche qualità della democrazia. La sinistra tradizionale è nata per occuparsi della difesa dei più deboli e lo fa con varie colorazioni, che vanno dal rosso acceso al rosina pallido.
Ma questo messaggio ha perso via via di fascino, in una situazione in cui la società si è frammentata e strati sempre più ampi della popolazione si sono convinti di avere qualche privilegio – più o meno piccolo – da difendere. La sinistra insomma tende a muoversi tradizionalmente nel recinto degli svantaggiati. I temi della qualità della vita consentono di uscirne perché riguardano tutti e non solo i più deboli. Faccio notare l’enorme presa che lo spostamento del dibattito politico su questi temi potrebbe avere sull’elettorato femminile. In un certo senso quello che propongo è un tentativo di declinare al femminile l’organizzazione sociale.
Nessuna sorpresa che la destra stia imponendo le proprie ricette in Europa. Finché la sinistra ha proposte difensive e “recintate” continuerà così. Stiamo perdendo una gigantesca occasione di imporre temi al dibattito pubblico e alle agende politiche, stiamo lasciando questo compito alla destra.