Tutti gli ingredienti della natura politica di questa destra sovranista che guida l’Italia si uniscono infine nell’istinto meloniano di cercare nemici, dipingerli con i colori della convenienza e additarli al suo popolo, per evocare il campo di battaglia in cui il governo può assumere la postura eroica della sfida perenne, che la Premier non ha dismesso passando dall’opposizione al governo del Paese. Dunque ecco il vittimismo dei vincitori, il potere istituzionale che lamenta l’eterna insidia dei poteri forti, il residuo di un anticapitalismo populista, il nazionalismo industriale e soprattutto l’intolleranza per le critiche, l’irritazione per il pensiero difforme, la denuncia delle obiezioni alla sua visione dell’Italia e dell’Europa come atti di sabotaggio antipatriottici: il tutto riassunto e concentrato in una ricorrente insofferenza per il libero controllo dell’informazione sulle attività del governo.
All’istinto si unisce la tattica, l’inclinazione culturale, il riflesso condizionato. Attaccando un giornale, la Presidente del Consiglio parla a tutti gli organi d’informazione, ammonendoli (come se ce ne fosse bisogno)a stare in riga nei resoconti e nelle valutazioni degli atti dell’esecutivo, perché lei può altrimenti trasformarli in bersaglio, influenzando il mercato con le sue accuse. In più, questa sceneggiatura della fase le consente di deviare la percezione delle difficoltà del suo ministero, trasformando l’impotenza del potere nella pubblica denuncia di un’offensiva mediatica ostile, con la Premier che può rivestire i panni del suo personaggio preferito, l’underdog antisistema, svantaggiato perché fuori dal coro, preso di mira e costretto a lottare per difendersi. Un rovesciamento evidente della realtà, dei rapporti di forza e soprattutto del canone occidentale, visto che nei Paesi normali sono i giornali che giudicano i governi, davanti alla pubblica opinione, e non gli esecutivi che li scomunicano dal Palazzo.
Quasi tutto quel che sta accadendo lo abbiamo giàvissuto negli anni berlusconiani, con il presidente del Consiglio che portò in tribunale le dieci domande di Giuseppe D’Avanzo chiedendo ai giudici di farle sparire come calunnie, visto che non era in grado di rispondere alle questioni aperte dalla lettera di denuncia pubblica della first lady a Repubblica: la sentenza certificò che le domande erano pienamente legittime, semplicemente perché facevano parte dei diritti e dei doveri di un giornale. Dopo trent’anni, e proprio mentre quell’epoca e quelle pratiche vengono celebrate nell’anniversario dai presunti eredi, o meglio dai pretendenti, siamo nuovamente davanti all’esercizio da parte del governo del medesimo meccanismo psico-politico, che mescola intimidazione e lamentazione, e ancora una volta aggredisce Repubblica, non potendo smentirla.
È disperante constatare che tre decenni dopo il Paese è ancora qui, fermo davanti allo stesso scoglio, cioè al rapporto tra il potere legittimo e l’informazione. Ma è più interessante domandarsi qual è il vero demone che muove la destra (nelle sue diverse generazioni e interpretazioni) contro i giornali che hanno una diversa lettura del Paese e del mondo, e che partendo da questo punto di vista informano, valutano, commentano e criticano, svolgendo così la loro funzione: in un panorama della stampa di pluralismo concreto e quotidiano, dopo che si è consolidato un giornalismo di destra robusto, compatto e combattivo.
La risposta è nella cultura politica della destra italiana: dall’egolatria carismatica di Berlusconi al nazional-sovranismo populista di Meloni la concezione che il potere ha di sé è comunque e sempre sovraordinata rispetto a qualsiasi altro soggetto concorrente, sia istituzionale che politico o sociale e culturale.
La ragione di questa autoattribuzione di un privilegio — o potremmo dire di un plusvalore — risiede nella radice culturale della destra, cioè nella sua concezionedella potestà sovrana. Come se venisse sempre dall’altro mondo, la destra italiana interpreta infatti una vittoria elettorale non come la legittima conquista del governo, ma come la mitologica presa del potere: e questo attraverso quell’ “unzione del Signore” che nel racconto biblico consacrava i re e i sommi sacerdoti e che Berlusconi rivendicò per sé, nel significare il rapporto speciale tra la sua leadership e il popolo elettore. L’immagine è immediatamente efficace, e naturalmente anacronistica. Ma dietro l’antica tradizione c’è la moderna concezione della destra di un una sovranità che attraverso il voto passa dal popolo all’eletto, trasformandolo così in moderno sovrano, a modo suo intoccabile proprio per la sacralità popolare dell’investitura. Solo che nella Costituzione è scritto che la sovranità non emigra e non passa di mano, perché come stabilisce l’articolo 1 “appartiene al popolo”.
Da qui tutta la conflittualità, l’insofferenza della destra, la sua tensione continua verso un potere ulteriore, straordinario, d’eccezione, come se non bastasse la potestà legittima che i vincitori si sono conquistati ma servisse ogni volta una dotazione supplementare: per tradurre in norma il carisma berlusconiano, per concedere i pieni poteri a Salvini, per realizzare l’investitura diretta di Giorgia Meloni. È l’insoddisfazione perenne della destra, a disagio nei canoni della forma democratica istituzionale, troppo ristretti per la deformazione populista suggerita e pretesa dalla sua natura. Col disegno evidente di rompere la cornice costituzionale repubblicana di questi decenni, ed entrare in una forma nuova di Stato, basata su una “democrazia verticale”, incentrata sulla piena potestà della leadership e non su un sistema bilanciato di garanzie. In quel sistema, la stampa ha naturalmente il ruolo del coro: meglio dirlo prima, per saperlo poi.