Elisa Roncalli e Marco Roncalli
ll pedagogista, volto noto della prima televisione, frequentò a lungo da volontario l’America Latina con i salesiani. Impegno che raccontò in terza persona in un romanzo, ora ripubblicato

, romano, classe 1924 (proprio quest’anno ricorre il centenario della nascita), finita la guerra accettò un posto come educatore in un carcere minorile di Roma e, successivamente, insegnò in una scuola elementare della capitale dove restò fino alla pensione, dedicandosi anche a trasmissioni radiofoniche e – dal ‘60 al ‘68 – a un programma televisivo che lo rese famoso. Parliamo di Alberto ManziSì, quello del format Non è mai troppo tardiideato dalla Rai con il Ministero della Pubblica Istruzione per insegnare a leggere e scrivere a centinaia di migliaia di italiani che non sapevano farlo, trasmettendo loro anche l’amore per la cultura o nozioni su malattie ancor diffuse come la poliomelite.

 

Sin qui l’Alberto Manzi pioniere del servizio pubblico, il divulgatore carismatico che dal piccolo schermo incantava telespettatori analfabeti e non solo che lo seguivano soprattutto nei bar e nelle parrocchie, mancando ancora i televisori in molte case degli italiani. C’è però un altro motivo importante per non dimenticare Manzi: il suo lavoro come volontario in America Latina, taciuto a tutti salvo amici stretti, ma raccontato senza svelarsi, in terza persona, con il registro narrativo. Ce lo rammenta un romanzo pubblicato la prima volta nel ‘74 e da allora mai ristampato, in questi giorni tornato in libreria con un’introduzione di Roberto Farné: La luna nelle baracche (Edizioni di Storia e Letteratura, pagine 132, euro 16,00): il primo di una quadrilogia nella quale rielaborò con apprezzabili resoconti in chiave narrativa, situazioni e personaggi incontrati nella sua esperienza sudamericana. Tutto era cominciato a metà anni ‘50. Manzi si era recato nella foresta amazzonica grazie ad una borsa di studio per studiare un certo tipo di formiche subito scoprendo «altre cose che valevano molto di più». Come «i contadini che non potevano iscriversi ai sindacati, perché non sapevano leggere e scrivere e nessuno glielo insegnava» e «chi cercava di farlo rischiava di essere picchiato e imprigionato, oppure ucciso». Avrebbe spiegato: «Siccome si trattava di una cosa proibita, mi attirò». Così poi, per oltre vent’anni, trascorse le sue lunghe “vacanze estive” sull’altopiano andino, fra Ecuador e Perù, dove aveva come punto di riferimento una missione di salesiani e l’amico don Giulio Pianello, insegnando ai campesinos a leggere e scrivere in spagnolo.

Un’esperienza andata avanti sino al ‘76. Coinvolgendo anche universitari pronti a dare quel che sapevano e potevano: a insegnare a leggere e scrivere quelli delle facoltà umanistiche, a spiegare le norme igieniche o il pronto soccorso quelli di medicina… Poi per tutti arrivarono le accuse di essere “guevaristi” o “papisti”. Lui e i suoi ragazzi non furono più persone gradite. E Alberto Manzi si vide negare il visto. «Fu allora che intervennero i salesiani, quelli del Pontificio Ateneo Salesiano di Roma; (…) cominciando dal Brasile, in Perù e Bolivia, dove la situazione politica si era fatta pesante, non era possibile tornare». Nel frattempo però lo stato delle cose era ai suoi occhi era alquanto chiaro. Manzi faceva sue le riflessioni del teorico dell’educazione Paulo Freire e anche per lui la risposta era quella dei teologi della liberazione: la Chiesa doveva servire i poveri, non i potenti.

Niente dunque è puramente casuale nel racconto di Manzi, testimone nascosto di ciò che avviene nel villaggio di Sant’Andrea, nella hacienda del nobile señor don José, in cui è ambientato “La luna nelle baracche”. Pagine queste, dove a colpire il lettore sono lo sfruttamento talora celato da atteggiamenti paternalistici e falsamente religiosi, ma anche la ribellione solitaria di qualcuno – come il protagonista Pedro – che diventa “eroe” sacrificale e apre alla speranza. Una speranza che a ben vedere ha pure il volto di sacerdoti. Come don Rodas sempre impegnato ad assistere gli ammalati. Come don Julio (indubbiamente l’amico salesiano) che ha insegnato a leggere a Pedro, quest’ultimo fucilato dagli uomini a servizio di don José dopo aver manifestato l’intenzione di iscriversi al sindacato per far valere i diritti dei campesinosLa luna nelle baracche con i suoi pochi e ben delineati protagonisti e antagonisti, presenta una trama dove certamente azioni e dialoghi seguono un filo senza troppe digressioni. Di tanto in tanto però, irrompono descrizioni di luoghi, dettagli nei profili, quasi squarci di luce su una realtà invisibile. La luna che dà il titolo al libro – scrive nella prefazione Farné – assume così la fisionomia di una metafora che attraversa il racconto. «La sua luce, che si diffonde dall’ultima baracca in fondo al villaggio, illumina, all’inizio, l’incommensurabile distanza tra gli uomini e le donne di Sant’Andrea e don José e i suoi sorveglianti, che li considerano nient’altro che locos, gente stupida. E il suo risplendere, rifrangendosi tra le lamiere di cui son fatti gli umili ripari dei campesinos, rivela nel finale del romanzo la presa di coscienza e il passaggio di testimone fra generazioni che a quel “quadro” ha dato vita. Capovolgendone il significato».

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