A scuola, ogni giorno, il tempo segue ritmi propri. Come sosteneva Bergson, quel che conta è la durée, la percezione individuale delle ore che passano, la grammatica personale dei minuti scanditi non dall’orologio, bensì dal nostro stato d’animo. Ed è in questa grammatica che si inseriscono anche le relazioni tra docenti e ragazzi e le interazioni tra gli studenti.

La grammatica è importante. È il modo in cui si organizzano le frasi. È il modo in cui si tiene insieme la lingua che parliamo e, di conseguenza, il mondo che abitiamo, la cultura in cui ci riconosciamo. Qualsiasi insegnante ha esperienza di classi composte da ragazzi stranieri e italiani. Io non faccio eccezione. Ho la fortuna di avere, e di avere avuto, molte studentesse e studenti che vengono dal Bangladesh, dalla Cina, dal Pakistan, dalla Romania, da Capo Verde, dall’Ecuador, dalla Bolivia, dall’Egitto.

La situazione-tipo che mi ritrovo a gestire in questo melting pot di culture è la seguente: uno studente bengalese dice una cosa in bengalese, gli altri studenti bengalesi sghignazzano, uno studente romeno gli risponde in romeno e i romeni sghignazzano, lo studente pakistano dice la sua in urdu e ricominciano a ridere tutti, io capisco che parlano di me e gli chiedo: «Che dite? Eh? Perché ridete? Mi state prendendo in giro? Eh?» loro annuiscono, gli italiani ridono con il pakistano, i romeni e i bengalesi, e ripetono le frasi dette dal primo bengalese con una pronuncia che in inglese (lingua che insegno) se la sognano, insomma, tutti dicono una serie di parole e me incomprensibili, quindi io, dalla terra degli insegnanti di lingue straniere lancio un grido d’aiuto, e chiedo ai miei studenti di insegnarmi il maggior numero di termini possibile per replicare alle loro battute. La grammatica è importante.

Alcuni ragazzi stranieri conoscono l’italiano meglio dei compagni e questo è un dato di fatto. Le più recenti borse di studio per meriti scolastici di cui io abbia memoria, nelle mie classi, sono state assegnate a una studentessa pakistana e a uno studente romeno. La scuola è scambio, comunicazione, cultura e quindi grammatica.

La scuola tiene insieme il mondo civile, lo educa, lo istruisce. La scuola è, forse, uno degli ultimi presidi della democrazia. Noi insegnanti seguiamo – giustamente, doverosamente – corsi di formazione per essere all’altezza del compito che abbiamo scelto. Chiunque viva la scuola ogni giorno si ritrova a danzare all’interno di una grammatica smarginata, che ha tempi e spazi personali ma anche una correttezza formale e umana che siamo chiamati a rispettare e ad applicare. E l’italiano è solo una delle componenti della lingua parlata dall’istruzione pubblica.

Se dobbiamo rinunciare alla presenza degli studenti stranieri, se dobbiamo accettare questo genere di cambiamento, la grammatica della scuola andrà in pezzi e nessuno di noi sarà più in grado di dirsi insegnante senza mentire. In Registro di classe (ripubblicato da Minimum Fax), Sandro Onofri scriveva: «I ragazzi sono ragazzi, e va bene, però pure le cazzate sono cazzate. Allora mi tocca spiegare che essere antirazzisti non è né di destra né di sinistra. È semplicemente da persone intelligenti».

La scuola non è consolante, non conforta, non rassicura. È complicato il rapporto con i ragazzi, con i genitori, con l’istituzione. Nessuno di noi è immune da dubbi, ma è il solo mondo in cui noi insegnanti vogliamo vivere, anche quando ci troviamo di fronte ragazze e ragazzi che non conoscono la nostra lingua ma che contribuiscono a costruire la grammatica della scuola: l’unico abito su misura che gli studenti stranieri possono indossare senza sentirsi diversi.

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