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18 Novembre 2022INCONTRANDO JULIA BOLTON HOLLOWAY
Incontro l’irrepetibile Julia Bolton Holloway in un mattino di ottobre. Succede per caso, grazie a un caricabatterie. Mi trovo a Firenze e decido di prendermi una mezza mattinata per una visita al cimitero degli inglesi. Il cimitero è una duna di terra dalla forma ellittica, dove tra il 1828 e il 1877 sono state seppellite 1409 persone, provenienti da 16 diverse nazioni e in maggioranza inglesi. Nato per dare sepoltura ai non cattolici, si trova in mezzo a piazzale Donatello, fra due viali di scorrimento. Una compagnia di eroi romantici e letterati riposa cullata dal brusio delle automobili. Si dice che il cimitero degli inglesi fu d’ispirazione al pittore svizzero Arnold Böcklin per “L’isola dei morti”, celebre serie di cinque dipinti, realizzati fra il 1880 e il 1886, uno dei quali venne acquistato da Adolf Hitler. Una foto del 1940 ritrae Hitler, Von Ribbentrop e Vjačeslav Molotov, i tre strateghi del vigliacchissimo patto di spartizione della Polonia, mentre discutono con aria truce proprio di fronte al quadro di Böcklin.
Quando arrivo al cimitero, ho quasi esaurito la batteria del telefono. E’ uno di quei momenti patetici in cui hai bisogno di una presa di corrente, la dipendenza dallo smartphone diventa un fatto e cominci a guardarti attorno, in cerca di un angolo con i due buchini per infilare il caricabatterie. Decido perciò di bussare alla porticina dello stabile all’ingresso. “Per caso potrei lasciare un po’ in carica il telefono, intanto che visito il cimitero?”. Devo avere l’aria di un pazzo, di un disperato, ed è in questo frangente che faccio conoscenza di una donna deliziosa, di cui noto subito la vivacità e l’intelligenza non comune. Si chiama Julia Bolton Holloway ed è una suora cattolica di 85 anni, dagli occhi di un colore incerto e una dichiarata simpatia per il movimento quacchero. Nella stanza dove mi accoglie, permettendomi d’infilare nella presa il mio cellulare moribondo, vedo splendide e sottili scaffalature, alte fino al soffitto e stracolme di volumi di vario formato. E’ chiaro, mi trovo in una specie di monumento segreto, in luogo speciale, almeno quanto il vecchio cimitero. In un angolo noto una pila di abiti stirati, piegati e accuratamente sistemati sopra una sedia, tra cui diverse paia di rilucenti pantaloni di velluto. Rivolgo a Julia qualche domanda sul cimitero (che in verità avevo già visitato molti anni addietro). La conversazione si allarga al suo passato. Da ventidue anni, mi racconta, è custode di questo posto, mentre la sua vita precedente è stata quella di una ricercatrice e di una studiosa inquieta a cavallo tra due continenti. Julia è una medievista. Prima di prendere i voti è stata sposata. Un matrimonio non semplice. Ha avuto tre figli e oggi ha otto nipoti e quattro bisnipoti, sparsi fra Scozia, Florida e New Mexico. Ha studiato in California, a Berkeley. “A Berkeley?!?”. Sì, a Berkeley, il campus del film “Fragole e sangue”. Ha ascoltato i comizi di Angela Davis e la voce del filosofo Herbert Marcuse. Due settimane dopo il nostro incontro decido di tornare. Voglio conoscere tutta la storia. E’ il primo novembre, ma sembra primavera. Fuori ci sono 25 gradi. Suono il campanello e subito si apre il cancello automatico. Julia mi viene incontro con un sorriso: “Tea or coffe?”. Torna con un vassoietto e dei biscotti. Chiedo di nuovo di poter attaccare il mio vecchio iPhone a una presa, poi ci sediamo. “La mia è stata una vita strana”, dice. Nata a Londra nel 1937, il padre lavorava al Times of India. A sedici anni si trasferisce negli Stati Uniti. I capelli li ha tagliati corti con le forbicine delle unghie. Ha un volto da giovane intellettuale europea. Durante gli studi, per guadagnare qualche credito scolastico, partecipa all’osservazione di un evento abbacinante: un test atomico. Su quella lontana esperienza, Julia scrive un racconto. Si trova in rete, in un sito dove sono raccolti un po’ tutto il lavoro e la storia di Julia, comprese le sue belle foto da ragazza. Julia ha pure un profilo linkedin, dov’è possibile verificare le sue competenze. “Che cosa significa vedere un’esplosione nucleare?”. “E’ terribile. La pellicola non era capace di catturare la violenza della luce. Eravamo nella Death Valley, in Nevada, a 40 miglia di distanza dall’esperimento”. Julia descrive il viaggio in notturna per giungere sulla sommità di un’altura, la Dante’s view. Il toponimo rievoca nel gruppetto di studenti e insegnanti un passaggio del Canto IV dell’Inferno. Dante fa eco a quell’atmosfera di attesa apocalittica. Ormai albeggia e dopo un po’ la bomba esplode: It was a thousand times brighter than the light of day. E poi, ecco il fungo: The thing mushroomed and mushroomed.
A Berkeley si laurea in inglese, studi medievali e letteratura comparativa, con una tesi sul pellegrinaggio in Dante e Geoffrey Chaucer. Assiste agli scontri tra studenti e polizia. Dopo aver rivisto le immagini in tv, si accorge che la cronaca dei fatti è stata manipolata. Quando comincia a insegnare inglese e letteratura comparativa, il primo figlio è già grandicello. Lavora prima all’Università di Princeton, dove si trova una splendida biblioteca di manoscritti, e poi all’Università del Colorado. Julia mantiene tutta la famiglia con il suo magro stipendio e nel frattempo continua a occuparsi dei suoi amori letterari e spirituali, a partire da Brunetto Latini (che però lei chiama “Latino”, spiegandomene per filo e per segno la ragione filologica). “Che cosa significa insegnare il medioevo europeo in Colorado?”, chiedo. Julia racconta che negli anni Sessanta e Settanta nelle università americane ci fu grande interesse nei confronti del nostro medioevo. Menziona qualche studioso di valore e poi mi parla degli studenti: “Per loro il medioevo era un modo per fuggire dal tempo moderno, un po’ come lo è leggere Lord of the rings di Tolkien”. Il primo viaggio a Firenze risale alla gioventù. Ricorda di aver visto “La pietà” di Michelangelo e di aver ascoltato la predica di un prete contro “La dolce vita”. Quando si sofferma sulla bellezza dei manoscritti, il volto di Julia si fa roseo. Prende un libro con le riproduzioni del manoscritto del Tesoretto di Brunetto Latini (o Latino), lo apre sul tavolo, accanto al vassoietto con i biscotti, e mi fa segno con un dito: “Vedi, quando parla Dio, l’inchiostro è rosso”. M’invita a guardare le illustrazioni. Nella sezione inferiore della pagina, tra segni pallidi e sottili, intravedo le sembianze fumose di un cavallo, di un asino, di un serpente, di una lumaca e infine i volti di Adamo ed Eva. E’ commovente. Mi mostra una tavoletta, un tempo parte di un pannello ligneo di epoca medievale. E’ un regalo che le è stato fatto. La tavoletta è intarsiata con forme che imitano il mondo vegetale. Provo struggimento. Julia nutre ammirazione per l’artigianato medievale toscano, coevo dei primitivi toscani amati dai preraffaelliti. Nel linguaggio artigiano vede una combinazione armoniosa di visione intellettuale e sapere manuale. Ascolto e ritrovo lo stesso insolito affetto verso la tradizione che fu di Cristina Campo, scrittrice nata a Bologna, ma cresciuta a Firenze.
Un altro filone di studi riguarda due donne vissute nel XIV secolo: Santa Brigida di Svezia, che per diffondere una nuova idea di giustizia in Europa scese fino a Roma insieme ai tre figli, e Giuliana di Norwich. Tra la biografia di quest’ultima e quella di Julia Bolton Holloway c’è un punto in comune. Giuliana di Norwich fu anacoreta in una stanza addossata alla chiesa di Norwich, dove comunicava attraverso una finestrella; anche Julia Bolton Holloway, dopo un periodo vissuto in Inghilterra, a metà degli anni Novanta si è trasferita nella frazione di Montebeni, nel comune di Fiesole, dove ha vissuto da eremita per quattro anni, in una stanza senza riscaldamento, circondata dai libri che insieme a un torchio l’hanno seguita per tutti i suoi traslochi. Lì si è dedicata alla scrittura di un volume, proprio su Giuliana di Norwich.
Come e quando Julia si è fatta suora è una storia complicata. Parte da una vocazione emersa già da ragazza, poi accantonata e rispuntata in età adulta. Prima suora anglicana, in Inghilterra, e poi cattolica in Italia. Anche il colore delle sue iridi è complicato. Verdi o grigie? La parola corretta, dice Julia, è “hazel”. Indica un amalgama di verde, grigio e marrone. Lasciamo alle spalle i biscotti e il Tesorettoper una passeggiata tra le tombe. Passa un’ambulanza a sirena accesa, forse diretta all’ospedale di Careggi. Il flusso incessante del traffico mette in comunicazione l’Ottocento romantico, testimoniato da chi è sepolto in questa collinetta, con l’asprezza e gli afrori del pianeta odierno. Questa particolare contaminazione crea lo charme e l’unicità del cimitero degli inglesi. Qui sono sepolti letterati e sobillatori di diverse parti del mondo, giunti a Firenze a metà Ottocento, attratti dal mito della città e dalla temperie risorgimentale. Per un lungo periodo è stato un luogo frequentato da eroinomani, da aspiranti suicidi e da organizzatori di messe nere. Julia lo ha ripulito vent’anni fa insieme a una squadra di lavoratori rom. Tutt’ora vive insieme a una coppia di origini rom, che l’aiuta nella gestione del cimitero. La cultura rom è un altro suo pallino. Nel cimitero degli inglesi sono sepolti diversi militanti abolizionisti e antischiavisti, tra cui il predicatore Theodore Parker, autore della massima The arc of the moral universe is long, but it bends toward justice. Obama l’ha fatta intrecciare in un tappeto dello studio ovale. Ovviamente Trump si è sbarazzato del tappeto. Torno a staccare il caricabatterie dalla spina. Mi complimento per la libreria. Ogni scaffale è tenuto insieme all’altro da una croce di ferro molto aggraziata. Julia le ha fatte modellare da un fabbro, su imitazione dei fermi che si trovano nelle librerie della Biblioteca Bodleiana di Oxford, una delle più antiche biblioteche pubbliche al mondo. Non apprezza i mobili “minimalisti a basso prezzo”. Di nuovo mi confessa il suo amore per il mondo artigiano. “Ma chi ha costruito la libreria?”, chiedo. L’ha costruita lei, con le sue mani.
DI IVAN CAROZZI