Dopo 42 mesi e innumerevoli rinvii delle udienze, si è conclusa con una condanna a tre anni di carcere la vicenda di Patrick George Zaki, il ricercatore egiziano dell’Università di Bologna arrestato al Cairo nel febbraio del 2020 per “fake news” e “attentato alla sicurezza nazionale”.
Tutto ha inizio al termine del primo semestre d’esami all’Università Alma mater studiorum, quando Zaki, iscritto al master europeo ‘Gemma’ in Studi di genere, decide di concedersi una beve vacanza in famiglia a Mansoura, cittadina nel nord del Paese. Mai avrebbe potuto immaginare che ad attenderlo in aeroporto c’era un mandato di cattura per un articolo pubblicato in arabo sul portale Daraj, in cui raccontava come un egiziano copto trascorre una settimana, tra minacce e violenze. Un atto che, secondo le nuove leggi emanate dall’Egitto sull’anti-terrorismo, equivarrebbe al reato di diffusione di notizie false nel Paese e all’estero lesive della sicurezza nazionale. Era il 7 febbraio 2020.
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Come ha ricordato a poche ore dalla sentenza l’ong per i diritti umani con cui Zaki collaborava, l’Egyptian initiative for personal rights (Eipr), gli agenti della National security agency (Nsa) quel 7 febbraio del 2020 lo prelevarono bendato dall’aeroporto del Cairo per riportarlo a Mansoura, dove fu sottoposto a un interrogatorio nel corso del quale subì anche torture. Quel giorno, come riporta ancora l’Eipr, oltre alle minacce e alle percosse, gli agenti fecero ricorso anche all’elettroshock per ottenere più informazioni sul suo attivismo.
Ma Zaki e i suoi legali dovranno attendere oltre un anno per conoscere i reali capi d’accusa, mentre la detenzione cautelare viene meccanicamente rinnovata ogni 45 giorni, e a un certo punto spalanca per lo studioso le porte del carcere di massima sicurezza di Tora, al Cairo. Poi, a dicembre 2021, senza motivo apparente, il rilascio. Ma non decadono le accuse e su Zaki pesa inoltre un divieto di viaggio che gli impedisce di tornare nella “sua Bologna” per completare gli studi, nonostante crescano gli appelli a livello internazionale anche per garantire la libertà di studio, oltre che di espressione.
La vicenda Zaki infatti ha richiamato l’attenzione del mondo accademico e politico non solo dell’Italia, ma anche dell’Europa, sul caso dello studente e più in generale su quel governo salito al potere con il colpo di Stato del 2013 guidato dall’attuale presidente Abdel Fattah Al-Sisi, accusato da più parti di aver criminalizzato ogni forma di dissenso.
Parlare di Zaki significa dare attenzione a sparizioni forzate, torture e arresti da parte della polizia e degli agenti della National security agency. Quattro funzionari dei servizi segreti sono persino stati individuati dalla procura di Roma come gli esecutori dell’omicidio del ricercatore friulano Giulio Regeni, nel 2016. Un processo che però è in stallo, e rischia di non cominciare mai, perché si è persa traccia dei quattro rinviati a giudizio. Una questione su cui «l’Egitto non ha mai collaborato con la magistratura italiana, ecco perché la sentenza Zaki rappresenta un doppio schiaffo all’Italia e al governo Meloni» dice Giorgio Caracciolo, ricercatore del Danish Institute Against Torture (Dignity), che segue da vicino la situazione dei diritti umani in Egitto nonché la vicenda Zaki e Regeni. Due casi giudiziari «sono legati a doppio filo – dice – perché ne è responsabili il regime attraverso l’Nsa». Un interesse, quello di Caracciolo, che forse è alla base della sua espulsione dall’Egitto a novembre scorso, quando «una volta atterrato all’aeroporto del Cairo, gli agenti dell’Nsa mi hanno revocato il visto d’ingresso per seguire i lavori della Cop27 sul Clima di Sharm El-Sheik».
Sulla sentenza Zaki – che potrebbe prevedere solo 14 mesi di carcere su 36, calcolando i 22 già trascorsi dietro le sbarre – Caracciolo parla di «vergogna». «Invece di garantire i diritti a una vittima di tortura, si aggiungono ulteriori violazioni: Patrick – spiega l’esperto – è stato immediatamente arrestato sebbene le sentenze comminate dai tribunali d’emergenza, che non sono appellabili, attendano la ratifica del presidente della Repubblica, che ha anche il potere di emettere la grazia». Una grazia ora invocata ma che, se arriverà, andrà ascritta a quelle «operazioni di facciata» dietro cui secondo Caracciolo «non c’è nessuna reale volontà di migliorare la situazione dei diritti umani in Egitto».
* Agenzia Dire