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Diceva Franco Fortini, uno dei più ispirati poeti nella nostra lingua del secolo scorso, che i conflitti del futuro sarebbero divampati nelle redazioni. Intendeva dire che era sulle forme e i contenuti del linguaggio e della comunicazione che, dopo la crisi del fordismo, si sarebbe giocata la partita fra destra e sinistra, fra proprietà e società.
In questi giorni, all’ombra di terribili conflitti bellici, si sono ingaggiate diverse battaglie che rientrano in un’unica guerra: modalità di controllo o emancipazione di una comunità nazionale. I ring su cui si sta ancora combattendo sono, da una parte, la sempiterna vecchia zia dell’informazione, la Rai; dall’altra, quel coacervo di interessi inconfessabili che è il gruppo editoriale Gedi che pubblica, fra l’altro, “Repubblica”. In mezzo, come solito spettatore attonito, l’Unione europea, che pensava di aver risolto il groviglio delle autonomie dei sistemi editoriali fissando almeno il principio della piena indipedenza dal sistema politico degli apparati pubblici, con il Media Freedom Act (su cui torneremo). Gli scacchieri in agitazione, apparentemente distinti, si collegano attraverso l’incombenza di un convitato di pietra che sono le grandi compagnie monopoliste della rete, le quali ormai mirano esplicitamente a inglobare, nella catena di produzione del senso, quel segmento ancora irrequieto che è il sistema giornalistico. Da questo punto di vista, è davvero stupefacente quanto è avvenuto in questi giorni, e ancora più scandaloso il silenzio sostanziale di quella intellettualità politica sempre pronta a indignarsi per ogni segnale di autoritarismo strisciante.
Il gruppo di proprietà di John Elkann, presidente di Stellantis, la conglomerata automobilistica che sta smobilitando i suoi stabilimenti italiani, erede della tribù degli Agnelli, organizza a Torino, con il blasonato Politecnico locale, una settimana dedicata al mondo delle nuove tecnologie generative, insomma all’intelligenza artificiale. Ovviamente, date le tradizioni di famiglia, non trova di meglio che appaltare tale evento, annunciato come una messa a punto culturale e tecnologica su gli impatti sociali ed economici di questa ondata digitale, direttamente ai padroni del vapore, facendo parlare esclusivamente i proprietari delle imprese, di ogni ordine e grado.
Emblema di questa sinfonia padronale è un supplemento, allegato al quotidiano romano, con più di cento pagine che esaltano sfacciatamente ogni singolo prodotto, con agiografie dei titolari di ogni impresa. Il supplemento, per semplicità produttiva, è di fatto appaltato direttamente agli inserzionisti, che pagano in base allo spazio che occupano. Una delle operazioni di servitù editoriale senza precedenti nella storia del giornalismo nazionale. E infatti la redazione di “Repubblica” si solleva e proclama due giorni di sciopero, proprio nel pieno della settimana di Torino. A suggellare l’operazione, l’annuncio di una prima intesa fra la Gedi e OpenAI, il proprietario di ChatGPT, per l’uso dei contenuti realizzati dalle testate del gruppo editoriale italiano.
Siamo dinanzi a un’operazione solo ai primi passi, e che pare destinata a concludersi con una subordinazione, forse anche azionaria, della Gedi nei confronti del gruppo di Sam Altman, riproducendo in miniatura quanto è accaduto al “Washington Post” acquistato dal patron di Amazon, Bezos. Non dimentichiamo che l’Italia è l’anello debole dell’Unione europea, dopo la scelta di campo del governo Meloni a favore delle principali aziende della Silicon Valley: dal nostro Paese si può meglio negoziare con Bruxelles per mitigare le ansie regolatorie dell’Unione.
La Rai diventa così ancora più rilevante. Non tanto per la sua capacità di condizionamento elettorale, quanto per la massa critica che la renderebbe un soggetto negoziale importante nella transizione al digitale del sistema Paese. Ma in queste ore si sta consumando l’ennesima rissa da bar attorno al suo controllo. Abbiamo visto come si sia frantumato il “campo largo” dinanzi alle opzioni di inserire in consiglio propri rappresentanti. Il Pd era partito lancia in resta, guidato dallo staff della segretaria al riparo del Media Freedom Act, appena approvato dalla Commissione europea. Si tratta di un regolamento che, in maniera vincolante, impone ai Paesi dell’Unione, entro il prossimo agosto, di assicurare piena indipedenza ai rispettivi apparati di servizio pubblico radiotelevisivo, e di dotarli di una piena autosufficienza economica, così da non costringerli a elemosinare ogni anno l’indulgenza del governo.
Un principio chiaro, che cozza in maniera clamorosa con quanto accade in Italia, in particolare con la norma, approvata dal governo Renzi, che subordina il vertice aziendale di viale Mazzini non più al parlamento (cosa che comunque lasciava margini di pluralismo almeno teorici), ma direttamente a Palazzo Chigi, con il governo che impone due consiglieri, fra cui l’amministratore delegato, e designa il presidente. Su questa contraddizione il Nazareno ha avuto l’ideona di lanciare la sua operazione aventiniana, chiedendo a tutte le forze dell’alleanza di centrosinistra di non partecipare alla spartizione.
Dopo i primi silenzi reticenti, i 5 Stelle e l’Alleanza verdi-sinistra hanno rotto le file, e hanno piazzato i loro candidati come rappresentanza concessa alle minoranze. Ora, il colpo d’occhio ci dice di un opportunismo inaccettabile da parte di chi si è fatto optare, ma la politica ci conferma che non si può pensare di attestarsi su astratti principi di asettica autonomia delle aziende pubbliche. Tanto più in una fase in cui queste aziende stanno cambiando missione. La Rai, nella transizione ai nuovi linguaggi digitali, sta passando dalla natura di broadcasting – sistema che trasmette da uno a tanti, quello dei tradizionali mass media – a quella del browsing – sistema in cui ognuno sceglie programmi, orari e modelli di fruizione, il medium on demand. In questa transizione, stanno dominando le piattaforme come Netflix e Amazon, che, accumulando dati sensibili su milioni di utenti, sono in grado di veicolare anche messaggi altamente personalizzati sui comportamenti civici ed elettorali.
La battaglia vera – prima ancora dell’autonomia, che deve diventare una conseguenza ma non può essere la causa – è allora proprio sulla missione da ancorare a un mandato istituzionale, che chieda alla Rai di assicurare la piena capacità del Paese di dotarsi di procedure e linguaggi comunicativi propri, non condizionati, e tanto meno appaltati, ai grandi proprietari dell’algoritmo. Una Rai che sia apparato di contesa e competizione con i linguaggi invasivi dei centri tecnologici rilancia l’idea di un servizio pubblico come welfare della democrazia, e non solo come edicola di propagande di singoli partiti.
In questo contesto, muterebbe anche il profilo e la fisionomia del vertice, che dovrebbe essere dotato di saperi e competenze non riducibili alla fedeltà a questo o quel gruppo politico. Ma, a quanto si vede, ne siamo davvero lontani; e il destino Gedi, quello di una colonizzazione internazionale più che di un servilismo locale, si annuncia anche per il Cavallo di Francesco Messina, che sta ormai esalando l’ultimo respiro dinanzi all’entrata di viale Mazzini.